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Lo chiamavano Jeeg Robot, la recensione

Creato il 04 marzo 2016 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

lo chiamavano jeeg robotEra il dicembre 2014 quando Gabriele Salvatores portò al cinema il primo cine-comics italiano, Il ragazzo invisibile. Un film che iniziava ad affacciarsi su un genere che in Italia non c’è praticamente mai stato. Muovevamo così i primi passi con un piccolo hero che ancora non era super, se non per il fatto di poter sparire alla vista degli altri.
Poco più di un anno dopo è il turno di Gabriele Mainetti (classe 1976), che ci regala un esordio di rara potenza: Lo chiamavano Jeeg Robot. Che senza ombra di dubbio possiamo appellare come il primo vero film di supereroi italiano. Un film che attendevamo da tempo, forse da troppo tempo.

Se Il ragazzo invisibile era un film per ragazzi con protagonista un ragazzo, Lo chiamavano Jeeg Robot si sposta sul versante diametralmente opposto, in quanto film più per adulti con protagonista un (supereroe) adulto. Chi è costui? Enzo Ceccotti (interpretato da Claudio Santamaria) è un criminalotto di provincia, un ladruncolo di quartiere, che vive in una casupola lurida e fatiscente, che s’ingozza di filmini porno e yogurt mono-gusto. Un giorno, durante una fuga per un colpo non del tutto riuscito, si tuffa nel Tevere e sprofonda in un bidone di scorie radioattive. Ne riemergerà più forte di prima, dotato di poteri sovra-umani, pressoché invincibile.

Lo chiamavano Jeeg Robot è un’opera di grande intrattenimento, tesa, fluida. Impregnata di un mood nerissimo, ci conduce in atmosfere lugubri e torbide, come raramente il cinema americano targato Marvel ha fatto. E nel paragone con i super-eroi di patron Stan Lee sta uno dei punti di forza dell’opera prima di Mainetti: l’ancoraggio alla realtà. Se i super-eroi americani li ammiriamo sul grande schermo coscienti di come abbiano comunque un tono da fumetto, Lo chiamavano Jeeg Robot inserisce un personaggio sovra-umano in un mondo più che umano, di bisogni basilari, in bilico tra criminalità (dis)organizzata e voglia di giustizia. C’è la realtà di sfondo, di fronte alla quale un super-uomo come Enzo Ceccotti stacca con prepotenza.

Inoltre Lo chiamavano Jeeg Robot ribadisce un concetto chiave del cinema italiano degli ultimi due anni: ripartiamo dal genere. Il cinema tricolore, che negli anni Settanta è stato grande in produzioni di “cinema di genere”, ha capito che è una buona strada ripartire da lì, dal genere, per riportare sotto le luci della ribalta un certo (bel) modo di fare cinema. Lo hanno dimostrato anche film come Suburra di Stefano Sollima, Anime nere di Francesco Munzi, In fondo al bosco di Stefano Lodovichi, Alaska di Claudio Cupellini. La strada è quella giusta, dunque avanti tutta!

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