Dopo il mio primo Herzog, il mio primo Eric Rohmer. Ho deciso di vedere qualcosa prima del racconto delle stagioni, che ero impaziente di conoscere, così ho optato per il primo lungometraggio del cineasta francese, Il segno del leone, 1959 (ma distribuito tre anni più tardi, nonostante la produzione di Claude Chabrol). Un incontro forse meno folgorante, ma non per questo meno ricco di stimoli.
Il segno del leone è la storia di un musicista spiantato, Pierre, che, illuso di ricevere una cospicua eredità, scopre di aver festeggiato troppo presto e senza alcuna avvedutezza qualcosa che non ha mai avuto. Dunque l'uomo, un quarantenne, attraversa l'estate del '59 in una Parigi torrida, bellissima e ingrata.
Il film è in bianco e nero e costruito su sequenze brevissime, tagliate come se fossero espansioni disallineate di cartoline d'epoca: è l'immagine a definire la situazione e a segnare il passo narrativo rispetto alla scena precedente. Ciò che abbonda in ogni sequenza chiarisce, sviluppa, ma mi sembra sia la fotografia a dare l'idea, a scandire tempo e luce.
Ed è a questo punto che mi preme sottolineare la grandezza di Rohmer (che è anche lo sceneggiatore) nella scelta di queste immagini: a parte la scabra e immediata interpretazione di Jess Hahn, l'inquadratura del regista è straordinariamente profonda e multimensionale. È come se Rohmer componesse le immagini sulla base di una sovrapposizione di piani frontali allo spettatore, sì che il risultato è un'armonia di queste diverse profondità.
Non un semplice opporsi di uno sfondo a un concetto visivo, ma proprio un dilatarsi, uno sfrangiarsi della distanza tra il primo piano e gli strati trasparenti sottostanti. Eric Rohmer sembra procedere per accordi proprio in un film dedicato a un musicista che non ama il suo violino e non vive della sua musica. L'esito è una sinfonia impeccabile, ma un po' fredda che, curiosamente, per l'alchimia della celluloide, in certi istanti ha richiamato alla mia memoria la luce spietata e i silenzi di un Tati.