
Il segno del leone è la storia di un musicista spiantato, Pierre, che, illuso di ricevere una cospicua eredità, scopre di aver festeggiato troppo presto e senza alcuna avvedutezza qualcosa che non ha mai avuto. Dunque l'uomo, un quarantenne, attraversa l'estate del '59 in una Parigi torrida, bellissima e ingrata.
Il film è in bianco e nero e costruito su sequenze brevissime, tagliate come se fossero espansioni disallineate di cartoline d'epoca: è l'immagine a definire la situazione e a segnare il passo narrativo rispetto alla scena precedente. Ciò che abbonda in ogni sequenza chiarisce, sviluppa, ma mi sembra sia la fotografia a dare l'idea, a scandire tempo e luce.

Non un semplice opporsi di uno sfondo a un concetto visivo, ma proprio un dilatarsi, uno sfrangiarsi della distanza tra il primo piano e gli strati trasparenti sottostanti. Eric Rohmer sembra procedere per accordi proprio in un film dedicato a un musicista che non ama il suo violino e non vive della sua musica. L'esito è una sinfonia impeccabile, ma un po' fredda che, curiosamente, per l'alchimia della celluloide, in certi istanti ha richiamato alla mia memoria la luce spietata e i silenzi di un Tati.