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le pellicole che – dicono – stanno sbancando al botteghino
Lo Hobbit – La battaglia delle cinque armate
Titolo: “The Hobbit – The battle of the five armies”
Regia: Peter Jackson
Sceneggiatura: Peter Jackson, Guillermo Del Toro
Genere: fantasy
Durata: 144 minuti
Interpreti: Martin Freeman: Bilbo Baggins
Richard Armitage: Thorin Scudodiquercia
Orlando Bloom: Legolas
Lee Pace: Thranduil
Evangeline Lilly: Tauriel
Aidan Turner: Kili
Anno: 2014
Trama: Smaug viene ucciso, Thorin diviene Re-sotto-la-montagna ma viene corrotto dal tesoro del drago. Orchi, Elfi e Nani si contendono l’indifeso regno di Erebor, scontrandosi in un epica battaglia.
di Jacopo Giunchi
Dopo Un viaggio inaspettato e La desolazione di Smaug, arriva il capitolo finale della trilogia dello Hobbit: La battaglia delle cinque armate. Lo scorso anno avevo concluso dicendo che il secondo film conservava quasi tutti i difetti del primo, fatta eccezione per un miglior utilizzo della tecnologia di ripresa HRF. Quest’anno si può ben dire la stessa cosa per il terzo capitolo, per il quale comunque si nutrivano poche speranze.
Vediamo dunque insieme i principali difetti riscontrati nella trilogia:
- Mortificazione della nuova trilogia a umile prequel della vecchia
- Espedienti platealmente finalizzati al successo commerciale
- Nani palesemente imparruccati
- Divergenze e inclusioni rispetto al romanzo del 1937, dovute soprattutto alla scelta di girare 3 film da 3 ore, con conseguente effetto di “brodo allungato”
- Riproposizione maniacale degli stilemi di LOTR, con conseguente effetto di “minestra riscaldata”
- Fotografia troppo nitida e luminosa che, assieme all’uso massiccio di computer graphic e dell’HFR, genera immagini finte e plasticose che smascherano la messa in scena.
Oltretutto, ne La battaglia delle cinque armate, Jackson si intestardisce nel portare avanti plot, plottini, sottoplot e love story, nell’inutile accanimento terapeutico di una trilogia ormai irrecuperabile dal punto di vista contenutistico. Si poteva, almeno per l’ultimo film, abbandonare ogni pretesa e regalare al pubblico un intrattenimento puro fatto di battaglie e azioni rocambolesche; infatti, la mezz’ora dedicata agli scontri, benché pomposi e caricaturali, funziona benissimo: le scene di caciara corale sono la specialità del regista; il problema è tutto il resto.
La prima parte è verbosa e noiosa, fatta eccezione per i primi 10 minuti in cui la scena è occupata dal drago Smaug, sebbene la sua uccisione da parte dell’arcere Bard risulti un po’ ridicola. A questo proposito mi intreressa sottolineare che questa sequenza, posta all’inizio del terzo film, sarebbe stata il perfetto epilogo del secondo; chiaramente, si è deciso di sospendere La desolazione di Smaug con un cliffhanger e concludere in seguito per ragioni puramente commerciali; questa soluzione, nonostante aiuti a movimentare la prima parte de La battaglia delle cinque armate, impedisce di apprezzare i singoli film come opere conchiuse e dimostra la tendenza alla serializzazione cinematografica che investe questa e molte altre saghe contemporanee. Questo atteggiamento mercificatorio è stato fin dall’inizio uno dei principali capi d’accusa della trilogia, dalla decisione di dividere l’opera in 3 film, al fan service senza ritegno che ha portato ad includere molti personaggi estranei alle vicende (vedi prima recensione).
Si lascia spazio a tutti i personaggi, ridimensionando alcuni ruoli dominanti nei primi lungometraggi (Bilbo, Tauriel, Bard) e ampliandone alcuni trascurati (Thranduil, Legolas). In generale, si assiste a una moltiplicazione eccessiva di filoni paralleli che porta a un fastidioso head hopping mal orchestrato, dove si alternano numerose vicende: la follia di Thorin, il furto di Bilbo, lo scontro con Sauron, la resistenza di Bard, il triangolo amoroso Tauriel-Kili-Legolas e la grande battaglia ai piedi di Erebor. La quantità delle situazioni, assieme a una cattiva sceneggiatura e un montaggio frammentario e disorganico, rendono questa pellicola indigesta.
La seconda parte è più densa di azione e quindi più bella. Ancora una volta, quello che funziona nel film sono le scene con un’alta componente effettistica e coreografica. Le battaglie sono belle ma troppo poche e spesso eccessivamente sussunte in duelli tra personaggi chiave. Come sempre, Jackson mostra un’azione frenetica e sopra le righe, eccedendo spesso in un’ironia spettacolarizzata che ricorda le scazzottate alla Bud Spencer; va da sé che questo stile uccide ogni pretesa di epicità, che pure è ricercata con tanto sforzo nella fotografia e nella musica; questa dissonanza era presente anche in LOTR, ma la si tollerava all’interno di un’opera quadrata e ben riuscita, cosa che lo Hobbit non è affatto.
Tra i nuovi personaggi troviamo Dàin Piediferro, cugino di Thorin alla testa dell’esercito nanico, che entra in scena con discorsi smargiassi per poi eclissarsi nella foga della battaglia, salvo alcune scene in cui distribuisce testate agli orchi. La sua mancata incoronazione a Re-sotto-la-montagna, che concludeva il romanzo originale, ha infastidito i tolkieniani, che non si spiegano il motivo di tale decurtazione, a fronte di ampie inclusioni di materiale estraneo ben meno motivate, come l’oramai celebre love story tra Tauriel e Kili o l’aggiunta dei Mangiaterra, vermoni giganti à la Tremors che non aggiungono nulla alla storia. Si è deciso invece di concludere con la sequenza iniziale de La compagnia dell’anello con Bilbo intento a scrivere il Libro Rosso: un’altra prova del totale asservimento de Lo Hobbit verso Il signore degli anelli. Molti non hanno sopportato il personaggio viscido-comico Alfrid, figura meno che secondaria nella vicenda, a cui è stato dato eccessivo spazio. Bilbo, il presunto “protagonista”, è quasi assente e funge solo da deus ex machina finale.
Menzione speciale per le cavalcature, con le quali il regista si è sbizzarrito. Durante il film, infatti, i guerrieri compaiono spesso sul dorso di mostri o pittoreschi animali: il maiale da guerra di Dàin, il cervo dalle enormi corna di Thranduil, i goblin cavalcalupi, gli arieti bardati dei nani, gli ormai celebri conigli da slitta di Rhosgobel e, naturalmente, le grandi Aquile. In una scena assistiamo anche all’improbabile utilizzo di un pipistrello gigante come deltaplano da parte di Legolas. Ho trovato questo gusto quasi feticistico per le cavalcature uno degli aspetti più curiosi e affascinanti del film, al di là della loro splendida realizzazione.
Come avrete capito, questo capitolo finale non risolleva affatto il già poco valore della trilogia ma, anzi, lo abbassa ulteriormente. La battaglia delle cinque armate è il degno epitaffio di una sotto-saga nata monca, di cui adesso si possono tirare definitivamente le somme. E, come Jackson, chiudo ad anello questo mio ciclo di recensioni riallacciandomi alla prima, in cui mi dilungo in una digressione sul genere fantasy nel cinema. Se Il signore degli anelli rappresentò uno sdoganamento a lungo atteso del genere nelle sale cinematografiche, questa nuova trilogia, ben lungi dal ravvivare l’interesse verso il fantasy, sancisce la fine del ciclo iniziato 13 anni fa e credo che passerà molto tempo prima di rivedere sul grande schermo una pellicola fantasy di qualità. Nonostante il grande sforzo produttivo e l’utilizzo di una formula ben collaudata, i troppi e gravi errori commessi in questa operazione hanno reso (ahimè!) Lo Hobbit un disastro inaspettato.
- Jacopo Giunchi