Dopo la visione di Lo Hobbit- La desolazione di Smaug, ripresomi dall’ammaliamento conseguente all’innegabile fascino visivo (a mio avviso perfettamente godibile anche nella consueta dimensione), devo purtroppo ripetermi nel mettere su carta le medesime sensazioni scaturite riguardo il precedente episodio Un viaggio inaspettato, sempre in attesa di potermi ricredere ed esprimere un giudizio propriamente definitivo una volta visionato il capitolo conclusivo (There and Back Again, 17 dicembre 2014) del trittico delineato dal regista Peter Jackson, anche sceneggiatore insieme a Fran Walsh, Philippa Boyens, e Guillermo Del Toro, sulla base de romanzo di J.R.R. Tolkien (Lo Hobbit o la riconquista del tesoro, The Hobbit or There and Back Again,‘37).
Ian McKellen
In una pressoché pedissequa riproposizione dello schema narrativo, anche ne La desolazione di Smaug troviamo un prologo introduttivo che ci riporta indietro di un anno, all’incontro fra Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage), principe dei nani, e il mago Gandalf il grigio (Ian McKellen) all’interno di una locanda nel villaggio di Brea, quando i due convennero di procedere alla riconquista del regno perduto di Erebor, attaccato e conquistato dal drago Smaug, custode dell’immane tesoro, riunendo i nani ed aggiungendo alla compagnia Bilbo Baggins (Martin Freeman) un hobbit, che, a detta di Gandalf, servirà da valido “scassinatore” per sottrarre l’Arkengemma.
Si riprende poi da dove la narrazione si era interrotta, la composita brigata in marcia verso Elebor, sempre inseguiti dagli Orchi Pallidi guidati da Azog (Manu Bennet), giungendo alla meta agognata dopo tutta una serie di contrattempi ed avventure (l’allontanamento dalla compagnia di Gandalf, nei pressi di Bosco Atro, l’incontro scontro con gli Elfi Silvani, l’arrivo a Pontelagolungo).
Richard Armitage
E’ evidente un maggiore respiro epico rispetto al citato primo film, unito ad una certa tensione narrativa, anche se quest’ultima deve fare i conti con una eccessiva dilatazione temporale, vista la scelta di prendere la via della diluizione cinematografica nel narrare quanto accaduto sessant’anni prima de Il signore degli anelli, disseminando indizi qua e là ed apportando squilibrate innovazioni (l’intuibile attrazione fra l’elfo Taurien, personaggio creato di sana pianta, e il nano Kili, Aidan Turner), per una ricostruzione minuziosa ma ancora una volta frammentaria e scomposta in singoli quadri narrativi, uniti fra loro da studiati colpi di scena, con una schema più da videogioco che da film d’avventura propriamente detto, considerandone la consistenza meccanica e dal sapore preordinato.
Latitano ancora una volta le caratterizzazioni dei personaggi, fatta eccezione per Thorin, sempre efficacemente shakespeariano, e Bilbo, la cui ulteriore evoluzione da pavido ad intrepido è validamente resa da Freeman.
Evangeline Lilly
Fra le varie sequenze, a suscitare un a certa emozione, almeno a livello di personale sensazione, più che la battaglia contro i ragni giganti o la discesa lungo il fiume all’interno di barili, con tanto di duello misto fra le varie forze in campo, certamente girate con abilità, ma dalla fredda e calcolata spettacolarità, vi è in primo luogo quella in cui Sauron si manifesta a Gandalf all’interno di Dal Guldur, dove un tetro senso del mistero ed una certa epicità trovano conciliazione con il particolare afflato visivo che unisce riprese dal vero (Nuova Zelanda) e digitale.
Poi, in seconda analisi, per quanto ricalcata sul confronto tra lo hobbit e Gollum ne Un viaggio inaspettato, la sequenza dell’ingresso di Bilbo nei sotterranei di Erebor, con la conseguente reciproca conoscenza del drago Smaug, perfetto villain, avido e compiaciuto del proprio potere, con bei dialoghi sospesi fra pathos ed un certo humour, uniti ad una diabolica abilità nel rendere particolarmente viva la presenza dell’immonda creatura.
Martin Freeman
Il finale spudoratamente cliffhanger, costretto nella logica puramente commerciale di girare tre film in luogo dei previsti due (quando, mi unisco al coro di molti, ne bastava uno), avvicina La desolazione di Smaug a tante realizzazioni seriali di questi ultimi anni, quasi sempre lontane da quella felice combinazione fra spettacolarità ed autorialità universalmente riconosciuta a Jackson, il quale con il trittico di The Hobbit ha impiantato una costruzione sulla sabbia dei floridi mezzi a disposizione e degli incassi certo elevati ma non sulle più solide fondamenta di un intrattenimento puramente e magicamente cinematografico, al di là del consueto scintillio e dei lustrini d’ordinanza.