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Ma nella preoccupazione degli ingolfamenti che rimandavano a "data incerta" l'uscita della pellicola, gli appassionati trovarono infine contento quando venne annunciato ufficialmente che il timone dei racconti precedenti all'odissea di Frodo era finito nuovamente in mano all'unica persona in grado di garantire fiducia e qualità al progetto: il maestro e creatore della Terra di Mezzo Peter Jackson. Una guida obbligata la sua, figlia del rifiuto di chiunque altro a volersi addossare un eredità pesantissima e abnorme, non allegeribile neppure dal sostegno che lui stesso era pronto a fornire da produttore, sceneggiatore e soprattutto fan numero uno.
Eppure, riletto oggi, il cammino di questa snervante fase pre-produttiva lascia pensare a un gigantesco disegno del destino scribacchiato proprio in favore di Jackson. Con "Lo Hobbit" infatti il regista si è caricato sicuramente in maggior misura di un impegno al quale aveva intenzione di prendere parte meno attiva, ma l’esserci entrato dentro fino in fondo gli ha consentito in seguito di sperimentarsi ancora e di superare il lavoro visivo già eccellente eseguito con "Il Signore Degli Anelli". Perché grazie all'innovazione di girare la pellicola in HFR 3D (48 fotogrammi al secondo anziché i 24 standard) il suo film impartisce al pubblico un inedito linguaggio cinematografico - uno a cui fino ad ora nessuno era stato mai abituato - e nonostante questa tecnica non abbia raggiunto ancora un plebiscito assoluto (probabilmente perché imperfetta e affinabile), il suo adoperamento resta determinante ad elevare l’asticella di magnificenza cinematografica oltre il limite conosciuto, che fino a ieri si pensava fosse quello toccato da James Cameron con “Avatar”.
Tuttavia, se dovessimo analizzare "Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato" esclusivamente dal punto di vista della trama e dei personaggi bisognerebbe ammettere che di terreno ceduto in favore del suo predecessore né porta assai più del previsto. La storia del giovane Bilbo Baggins - arruolato da Gandalf per unirsi ad un esercito di tredici nani decisi a riconquistare la loro terra estirpata dal dragone Smaug - è meno intensa e avvincente se messa a confronto con quella di Frodo e del suo pericoloso anello del potere. Seppur scheletricamente molto simmetriche a fare della vicenda di questo prequel un trasporto minore è essenzialmente la caratterizzazione troppo esile dei suoi protagonisti principali. Se il Bilbo del bravissimo e appropriato Martin Freeman potrebbe specchiarsi più o meno bene con ciò che prima era incarnato da Frodo, viceversa nessuno dei tredici nani viene dipinto oltre il minimo indispensabile da riuscire ad accaparrarsi il gradimento dello spettatore, e Thorin - il Re plasmato chiaramente sulla falsa riga di Aragorn - non raggiunge mai dei risultati davvero soddisfacenti. Diventa Gandalf quindi il vero mattatore di questo primo capitolo, finalmente combattente attivo ed energico, la sua immagine è un piacere assoluto per gli occhi e rivederlo sullo schermo scaturisce un emozione eguagliabile solamente da un'altro ritorno, quello di Gollum/Smeagol.
Nonostante ciò la bravura di Peter Jackson nel raccontare questo genere di storie resta immensa e incomparabile, la cura maniacale usata per creare mondi fantastici abitati da creature incredibili e personaggi eroici fa sì che la realtà conosciuta venga da lui completamente cancellata e riscritta, e sempre in maniera talmente nitida e particolareggiata da risultare autentica e credibile. A noi allora non resta altro che cadere nel suo incantesimo e ammettere coscientemente che quella vecchia volpe ha saputo fregarci tutti ancora una volta. Il compito di contare impazienti i giorni che ci dividono dal proseguo di questa nuova trilogia è ricominciato. Bene o male che sia, dovremmo farcene subito una ragione.
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