Non avevo ancora visto il capolavoro di Julian Schnabel “Lo scafandro e la farfalla“, così ieri sera dopo tanto tempo ho deciso di guardarlo cercando di coglierne le migliori sfumature.
La trama è centrata su un protagonista benestante, art director francese della rivista Elle, che all’età di 42 anni subisce una forma d’ictus abbastanza rara. La sua è una convalescenza che lo porterà a una nuova scoperta di sé. Il suo sogno è quello di riscrivere il Conte di Montecristo in una versione totalmente dedicata alla vendetta femminile, ma non ci riesce a causa di questo incidente che lo porterà invece a dettare il volume da cui è tratto e ispirato il film.
Non è romantico: è molto schietto, a volte sprezzate, ferocemente ironico e dosato della giusta dignità. Le figure principali che accolgono la degenza di Jean-Dominique Bauby, in ospedale, sono prevalentemente femminili; donne che lo aiutano e supportano, lo educano al nuovo linguaggio studiato per chi ha problemi di logopedia; lo accolgono e lo motivano, nonostante la sua dose di egoismo raccapricciante e un po’ lacerante.
In realtà il lavoro ruota su alcune tematiche principali. Il corpo – scafandro-, sebbene sia ormai immobile, ha una forma di salvezza che è data dalla creatività – la farfalla -, e dalla fantasia che trae ispirazione dal ricordo. La memoria come fonte di nutrizione attiva, rinvigorita dagli stimoli motivazionali che provengono maldestramente dall’esterno.
Ci si trova di fronte a un protagonista che non esprime le sue parole a voce: siamo in costante contatto con un flusso di coscienza che ci porta ad accarezzare la sua malattia per tutto il tempo di visione, giustificando le scelte in maniera concreta, e facendoci porre un interrogativo basilare sulla nostra esistenza. Sto parlando del fatto che ognuno di noi, in qualsiasi momento, può essere vittima di una situazione non piacevole. Questo non vuol dire essere fatalisti, ma guardare la realtà con gli occhi bene aperti e lucidi. Trasformando il realismo cinematografico in un vero e proprio quesito interiore, Schanbel, sfrutta l’essenza dei rapporti umani riallacciando le esistenze di un padre e un figlio, raccontando pensieri e sentimenti mai manifestati, in questo caso, raccolti, in maniera necessaria, a piccole dosi, in frammenti di scene composti in maniera mirabile.
Il montaggio è la parte più nobile, alcune scene sono essenziali, nette come sono certe opere minimaliste sanno essere. Un esempio è la lunga carrellata fatta al balcone, quando si cita in ricordo Cinecittà: una luce talmente lineare da portarmi a ritrovare alcuni dipinti di Edward Hopper o in alcuni tagli la Roma abbandonata descritta ed esplorata più volte da Pierpaolo Pasolini.
Il film ha vinto il 60° Festival di Cannes nel 2007.
Oggi una mostra del pittore, regista americano, Julian Schnabel è ospitata al CIAC di Foligno e in programma fino al 23 giugno (clicca).
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