Perché c'è la musichetta composta dallo stesso Eastwood e ormai tipica di ogni film di Eastwood (e Luca Sofri nota come sia copiata dal concerto per pianoforte numero due di Rachmaninoff), perché non si può più parlare male di un film di Eastwood, e perché, in più, questa volta, oltre a Eastwood, c'è pure Dickens, e allora tutto quello che si dice nel film non è buono e giusto perché lo dice Eastwood (EastwoodEastwoodEastwoodEastwoodEastwood), ma perché lo dice Eastwood (EastwoodEastwood EastwoodEastwood) con l'appoggio di Dickens, come se bastasse girare una scena nella casa londinese di Dickens per far comprendere a tutti che il film cresce sotto una luce dickensiana.
Se così fosse, un qualsiasi regista cane di questo mondo potrebbe appendere alle pareti di una stanza un poster di Godard e tutti loderemo il suo film perché concepito all'ombra di Godard: quando anni fa succedevano cose del genere, specie se fatte da qualche indipendente americano, si sentivano gli ululati in platea.
Non parlo di Hereafter, a parte il giudizio sbrigativo che ho dato poco sopra, perché non mi va di parlar male di un film. Un grande regista è tale anche quando sbaglia film o quando comincia a invecchiare: e Eastwood rimane grandissimo anche se gli ultimi suoi film sono stanchi e sbadati. Ma quella che dovrebbe essere un'opinione così scontata da non richiedere conferme, diventa invece una posizione critica da opporre agli "autoriali" per vocazione, quei critici (vedi questa rivista, per esempio) che difendono a spron battuto qualsiasi opera di un loro beniamino, tappandosi orecchie, bocca e soprattutto occhi di fronte a uno schermo sempre più immaginario.