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LO SCIACALLO: recensione. Tornano le jene del quarto (e quinto) potere

Creato il 18 novembre 2014 da Luigilocatelli

Lo sciacallo (Nightcrawler), un film di Dan Gilroy. Con Jake Gyllenhaal, Riz Ahmed, Rene Russo, Bill Paxton.
K72A3451d.tifUna specie di Network/Quinto potere reloaded. Un’altra denuncia della faccia oscura e malsana dei media. Un derelitto all’ultimo gradino della scala sociale si trasforma in cacciatore di fatti di sangue per venderne le immagini a un canale tv. Ma Lo sciacallo non è solo un film indignato, è anche un teso thriller in una Los Angeles notturna, translucida e spettrale che ricorda il migliore Michael Mann. È, soprattutto, il ritratto allarmante di un uomo-massa con la testa imbottita dei miti del successo e corrotto dalla egemone cultura del narcisismo. Voto 8
K72A6112.CR2Uno dei migliori film che ci son giunti dall’America, tra Hollywood e Indiewood, in questo 2014. Denuncia del mostruoso potere della tv e della sua amoralità e subordinazione alle leggi bronzee dell’audience e dello share, è una specie di Network/Quinto potere reloaded e arriva solo ultimo in una lunga lista di film sulla faccia oscura dei media. Dal profetico L’asso nella manica di Billy Wilder a Un volto nella folla di Elia Kazan a Le jene del quarto potere di Melville. Per fortuna Nightcrawler non è solo un film indignado, ma anche, soprattutto, un thriller teso sorretto da una sceneggiatura astuta e costruita come Dio comanda, e si vede che Dan Gilroy, qui al suo esordio come regista, proprio dalla sceneggiatura viene (sua quella di Bourne Legacy, diretto dal fratello Tom). Esordiente sì dietro la mdp, però mica ingenuo, anzi con le idee chiare e, quel che più conta, con uno stile. L’allarmante Los Angeles prevalentemente notturna che DG ci consegna, con quelle silhouette di palme più aliene che esotiche su sfondi di cielo terso, troppo terso, quelle luci metropolitane, quei viluppi di nastri asfaltati, quegli orizzonti translucidi, richiamano l’iperrealismo in pittura e, in cinema, il Michael Mann migliore, quello di Collateral. Profondità quasi nulla, in una bidimensionalità che traduce cose e persone in pura superficie, in sagome che si muovono e guizzano come nel teatro cinese delle ombre. O come nel teatro-immagine di Bob Wilson. Film malato, di atti malati, di gente malata e bacata – il protagonista, lo spettrale reporter Lou Bloom e la sua anima gemella Nina, jenesca responsabile delle news di un canale tv – come uscita da una macabra graphic novel. Fantasmi a caccia di sangue, zombie, vampiri del quarto, quinto e ogni possibile successivo e depravato potere.
????????????Facciamo la conoscenza di Lou quando, miserabile al grado più basso della scala sociale, ruba rame e altra metalleria in giro dove e come può per rivenderli per una manciata di dollari a un torvo ricettatore. Finché il caso lo fa finire una notte sulla scena di un incidente su una qualche motorway, ed è lì che realizza come foto e video di una vittima o più vittime, di carni straziate e sanguinolente, possano essere materiale ghiotto per i media, e soprattutto per le news tv che più puntano sul sensazionale e a colpire lo spettatore molto sotto la cintura. Materiale con cui si posson fare parecchi soldi. Si prende una videocamera, ingaggia com assistente un poveraccio più concio di lui ma sveglissimo e pronto a tutto per tirarsi fuori dalla merda, e via a strisciare nella notte di LA a caccia di macabro. Bisogna intercettare le chiamate della polizia per arrivare al più presto sul luogo del delitto, dell’incidente, del massacro, della sparatoria. Bisogna arrivarci prima della concorrenza, e piazzare il materiale prima degli altri. Troverà in Nina, direttrice delle news in un tv bisognosa di sollevarsi dai bassi ascolti, il suo luciferino alter ego, colei che lo incoraggerà e spingerà ad andare sempre più in là nella ricerca del sangue-spettacolo: “Le vittime che fanno più audience sono bianche, di ottimi quartieri residenziali, le risse nei bassifondi tra poveri non interessano”, gli martella in testa Nina. Bisogna solleticare e alimentare il senso di paura e accerchiamento, la paranoia delle classi medie e alte per far impennare i numeri dell’ascolto e lo share. Questa è la lezione, e Lou impara presto. Diventerà il più bravo, il migliore, il più sciacallesco. Fino a quando si metterà in testa di poter determinare lui stesso gli eventi per riprenderli in diretta, nel loro farsi. La mattanza live.
Quella di Lou è un’escalation, o una discesa all’inferno, che Gilroy sa montare e raccontare con sapienza narrativa, con un gran senso drammaturgico della progressione, delle svolte, dei climax, dei colpi di scena. Ma a rendere Nightcrawler più ricco, complesso, stratificato di un pur buono film di denuncia, o di un qualsiasi thriller, è il character di Lou Bloom. Il quale da una parte porta a livelli estremi e patologici l’impulso al successo, all’affermazione individuale che è un dato costitutivo (e di per sé sano) inscritto nel genoma americano, dall’altro si mostra a noi come il frutto marcio di quella sempre più vasta subcultura spacciata da montagne di manualistica sul come diventare famosi, rafforzare l’autostima, diventare boss di se stessi, pensare positivo, credere nelle proprie capacità e via egotizzando, che ci ammorba almeno a partire dagli anni Ottanta. E che più recentemente ha trovato in internet un ulteriore, inarrestabile canale di amplificazione e circolazione. “Non sai quante cose si imparano su Internet”, dice Lou in una battuta che rischia di essere epocale. Un poveretto che si riempie la bocca e la testa vuota di bufale web, che scambia il rumore informativo della rete per sapere e cultura autentici, e invece importa passivamente modelli preformati senza accorgeresene. Ce la farà, a diventare l’imprenditore che sognava di essere, a trasformarsi nel ras del nightcrawling in cerca di sangue. Spettro incarnato di quella visione del mondo che scambia il riuscire per la rinuncia a ogni fremito di coscienza. È da brividi la lingua semplificata, robotica, a una sola dimensione con cui Gilroy lo fa parlare. Un vero capolavoro di scrittura, un’operazione di mimesi perfettamente riuscita di quel cianciare dilagante e ossessivo, anche da questa parte dell’Atlantico mica solo di là, sull’affermazione di sè. La lingua dell’egolatria dissennata, del narcisismo ormai diventato patologia collettiva. Jake Gylkenhaal, paurosamente smagrito, mette a segno forse la sua migliore perfomance di sempre. René Russo (moglie di Dan Gilroy), naturalmente sensuale com’è, sa tirar fuori il massimo dalla sua torbida Nina. Ma la rivelazione è Riz Ahmed quale assistente di Lou. Era già bravo in Il fondamentalista riluttante di Mira Nair, qui come aiutante-carnefice e insieme vittima è strepitoso.


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