LO SCOIATTOLO E LA TAMIA
Lo scoiattolo e la tamia(*) si frequentavano da un paio di settimane, quando rimasero a corto di argomenti. Ghiande, parassiti, l’inevitabile avvicinarsi dell’autunno: questi temi erano stati affrontati durante la prima ora trascorsa insieme, e in modo così frenetico che ad entrambi si era arrossato il viso. Per due volte avevano discusso a lungo dei cani, entrambi dichiarando nei loro confronti un odio indiscriminato, e chiedendosi come sarebbe stata la vita se anche a loro qualcuno avesse piazzato davanti una ciotola piena di cibo due volte al giorno. «Sono viziati da far schifo, ecco cosa» aveva detto la tamia, e lo scoiattolo, appoggiando una zampa sopra la sua, aveva risposto: «Esatto! Finalmente qualcuno che lo capisce».
Gli amici li avevano avvertiti: tra di loro non poteva funzionare. Ma era proprio in quei momenti che i due si convincevano ancor di più che gli scettici non solo si sbagliassero, ma fossero gelosi. «Loro non avranno mai quello che abbiamo noi» diceva lo scoiattolo, dopodiché entrambi rimanevano in silenzio, sperando in una piena improvvisa o in un colpo di fucile; qualcosa, qualunque cosa potesse generare una conversazione.
Una sera erano in un piccolo bar gestito da una coppia di gufi, quando, dopo un lungo silenzio, lo scoiattolo sbatté il palmo della zampa sul tavolo. «Sai cos’è che mi piace?» disse. «Il jazz».
«Non lo sapevo» rispose la tamia. «Caspita, il jazz!». Non aveva la minima idea di cosa fosse, il jazz, però temeva che chiedendo delucidazioni avrebbe fatto la figura della stupida. «Ma di quale tipo in particolare?» domandò, sperando in una risposta che l’aiutasse a restringere il campo.
«Mah, a dire il vero un po’ tutto» disse lui. «Specie la roba più vecchia».
«Anche a me» disse la tamia e quando lui le chiese come mai, lei gli rispose che la roba più recente era, per i suoi gusti, appunto troppo recente. «Un po’come la frutta quand’è troppo matura, hai presente?».
A quel punto, e per la terza volta da quando lo conosceva, lo scoiattolo allungò la zampa sul tavolo e la posò sulla sua.
Quella sera, tornando a casa, la tamia svegliò la sorella maggiore con cui divideva la stanza: «Senti un po’» le sussurrò. «Ho bisogno che mi spieghi una cosa. Che roba è il jazz?»
«Perché me lo chiedi?» disse la sorella.
«Perciò non lo sai nemmeno tu?» ribatté la tamia.
«Non ho detto che non lo so» disse la sorella. «Ti ho chiesto come mai che me lo chiedi. Per caso c’entra quello scoiattolo?».
«Chissà» rispose la tamia
«Be’, stavolta lo dico» annunciò la sorella. «Domattina appena mi sveglio, perché questa storia è andata avanti abbastanza». Sbatté la zampa sul cuscino di muschio, poi se lo risistemò sotto la testa. «Ti avevo avvertito settimane fa, che tra voi due non poteva funzionare, e adesso sei qui che metti in subbuglio tutta la casa. Arrivi nel cuore della notte e mi svegli con i tuoi stupidi segretucci. Te lo do io, il jazz. Aspetta che lo sappia la mamma».
Quella notte, la tamia rimase sveglia nel letto, immaginandosi la grana che sarebbe scoppiata l’indomani mattina. E se in gergo scoiattolesco “jazz” vorrebbe dire qualcosa di terribile, tipo “rapporto anale”? “Oh, anche a me piace” gli aveva risposto, e con che entusiasmo! O magari era solo qualcosa di mediamente terribile, come “comunismo” o “cartomanzia”, cose di cui la gente parlava ma che non praticava quasi mai. Non appena aveva l’impressione di essersi calmata, una nuova possibilità si faceva strada tra i suoi pensieri, ogni volta più terribile della precedente. Il jazz era la carne di un cadavere infestata dai vermi, la crosta di un occhio infetto, un sinonimo di “ suicidio rituale”. E lei aveva detto che le piaceva!
Anni dopo, ripensandoci con il senno di poi, la tamia si rese conto che dello scoiattolo non si era mai fidata davvero, come spiegare, altrimenti, tutte quelle terribili ipotesi? Fosse stato una tamia anche lui, magari di quelli scafati, lei avrebbe pensato che il jazz fosse qualcosa di familiare, che so, una qualche radice, oppure un certo tipo di acconciatura. Sua sorella, ovviamente, non le era stata di alcun aiuto e nemmeno gli altri membri della famiglia. «Non che io abbia qualcosa a priori contro gli scoiattoli» aveva detto sua madre. «E’ che questo qui, be’… non mi piace». Costretta a scendere nei dettagli, aveva citato le unghie, per i suoi gusti un po’ troppo lunghe.«Segno sicuro di vanità» aveva sentenziato. «E adesso questa storia del jazz».
Era stata la goccia. All’indomani di quella notte insonne, la madre della tamia l’aveva costretta a lasciarlo.
«Be’» aveva sospirato lo scoiattolo «allora ci salutiamo qui».
«Eh, mi sa di sì» aveva risposto la tamia.
Qualche giorno dopo, lui era partito lungo il torrente diretto a valle, e lei non l’aveva mai più visto né sentito.
«Non è stata una gran perdita» aveva detto la sorella della tamia. «Una ragazza non dovrebbe mai tollerare un linguaggio del genere, specie da uno come quello lì».
«Parole sante» aveva aggiunto la madre.
Alla fine la tamia conobbe un altro, e una volta che si fu accasata, sua madre ipotizzò che il jazz fosse un ramo della medicina non del tutto riconosciuto, un po’ come la chiroterapia. La sorella disse di no, che più probabilmente era un ballo, e spingendo via la sedia dal tavolo si mise a scalciare per aria con le zampette grassocce. «Ma no» saltò su la madre «quello è un cancan!» E, unendosi alle danze, si mise a scalciare anche lei.
La tamia rimase molto colpita, non avendo mai immaginato che sua madre fosse in grado di distinguere un passo di ballo o qualsiasi altra cosa avesse a che fare col divertimento. Un giorno anche i suoi figli l’avrebbero vista così: noiosa, rigida, ancorata al passato. Ebbe dei maschi, tutti sani. Solo uno era un po’ turbolento, e aveva il brutto vizio di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, però era di buon cuore, e la tamia lo sapeva che prima o poi si sarebbe dato una regolata. La pensava così anche suo marito, che morì convinto di aver visto giusto.
Un mese o due dopo la sua scomparsa, la tamia chiese al figlio in questione che cosa fosse il jazz e, sentendosi rispondere che era un genere musicale, d’istinto seppe che le stava dicendo la verità. «Ma è musica brutta?» gli domandò
«Be’, se la suoni male, sì» rispose lui.«Altrimenti è molto piacevole».
«L’hanno inventata gli scoiattoli?»
«Dio, no» disse lui. «Chi ti ha detto una cosa del genere?»
La tamia si accarezzò il muso bruno e bianco. «Nessuno» disse poi. «Me lo chiedevo così».
Quando sul suo muso il bianco superò il bruno, la tamia dimenticò che lei e quello scoiattolo non avevano avuto nient’altro da dirsi. Dimenticò anche la definizione di “jazz”, che nella sua mente divenne l’ennesima di tante belle cose che non era riuscita ad apprezzare: il sapore della pioggia tiepida, l’odore di un cucciolo, il fragore di un fiume in piena che scorreva dietro il suo albero, e di lì verso l’infinito.
(David Sedaris – Favole moderne)
(*) Il tamia (chipnmunk) è un roditore nordamericano simile allo scoiattolo, reso celebre dai personaggi del cartone animato Cip e Ciop.