Quanto sembra dapprima sorprenderla e rapirla, questa borghesia, è la propria larghezza di vedute nel riconoscere che gli scrittori, anche loro, si possono prendere delle comuni vacanze. Le «vacanze» sono un fatto sociale recente, di cui d’altra parte sarebbe interessante seguire lo sviluppo mitologico. In un primo tempo fatto scolastico, con l’uso delle ferie pagate sono diventate un fatto proletario, o almeno lavorativo. Affermare che questo fatto può ormai concernere degli scrittori, che gli specialisti dell’animo umano sono anch’essi soggetti allo statuto generale del lavoro contemporaneo, è un modo per far sì che i nostri lettori borghesi siano convinti di saper procedere coi tempi: ci si compiace di riconoscere certe necessità prosaiche, ci si adegua alle realtà «moderne» mediante le lezioni di Siegfried e di Fourastié.
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S’intende che questa proletarizzazione dello scrittore viene accordata solo con parsimonia, e per essere meglio distrutta in seguito. Appena provvisto di un attributo sociale (le vacanze sono uno dei più piacevoli), l’uomo di lettere torna ben presto nell’empireo condiviso con i professionisti della vocazione. E la «naturalezza» nella quale si eternano i nostri romanzieri è istituita in realtà per tradurre una contraddizione sublime: quella tra una condizione prosaica, prodotta, ahimè, da un’epoca assai materialista, e il prestigioso statuto che la società borghese concede liberalmente ai suoi uomini d’ingegno (a patto che le siano inoffensivi).
[tratto da Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi]
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