Lo sfruttamento eccessivo delle zone di pesca modifica irrimediabilmente i nostri mari

Creato il 28 novembre 2013 da Kia

Greenpeace, associazione da sempre attiva nella difesa degli ecosistemi e dell’ambiente avverte, supportata da dati e studi scientifici, come pesci predatori quali tonni, pesci spada, merluzzi, indicatori di buona salute degli ecosistemi marini, siano sempre meno tanto da ritenere che quasi il 90% di questi nel mondo sia ormai stato pescato.

Allo stesso modo è notizia ormai risaputa che il tonno rosso ed il salmone atlantico siano in grave pericolo di estinzione.

Proprio in questi giorni, rispettando i dati scientifici fino ad ora emersi, alla riunione della commissione internazionale Iccat per la gestione della pesca dell’Altlantico e del Mediterraneo, è stato deciso di non incrementare la quota di pesca del tonno rosso nel Mediterraneo (restano così fisse le 13400 t ).

Secondo il Wwf, anche senza una nuova valutazione dello stato dell’ecosistema (quantificato nello stock disponibile), pare che si sia verificata una forte pressione da parte di molti stati per aumentare la quota di pescato.

L’Unione europea però,  attenendosi agli studi scientifici, ha tenuto duro e le proposte per aumentare le quote non sono state accettate.

Inoltre, la cosa davvero preoccupante e pericolosa, è la mancanza di tracciabilità negli allevamenti di tonno, il re tra le specie in pericolo, che di fatto potrebbe nascondere catture illegali.

Per lo stesso Wwf «l’allevamento è uno degli aspetti meno controllati nel business tonno rosso».

Marco Costantini responsabile del Wwf denuncia inoltre il deficit, durante la riunione, del raggiungimento di un accordo atto ad una maggiore tutela degli squali.

Per quanto riguarda la protezione degli squali infatti, i risultati dell’Iccat di quest’anno «sono molto deludenti»: la proposta di obbligare le barche a portare a terra gli squali con le pinne ancora integre è stata bocciata a causa delle forti pressioni di Giappone, Cina e Corea.

Nei territori dell’Unione Europea infatti, sussiste il divieto di “finning” e di importazione dal novembre 2012, in oriente però anche se questo tipo di pesca mette a rischio la sopravvivenza totale di alcune specie di squalo (arrivando a ridurre intere popolazioni fino al 90%) viene comunque ancora praticata.

In Cina (paese con il maggiore utilizzo di pinne di squalo) questo consumo è simbolo di ricchezza e prestigio: secondo il WWF ogni anno vengono uccisi 73 milioni di squali dai quali verranno asportate loro le pinne.

Qualcosa però almeno nella società sembra stia cambiando: l’opinione pubblica cinese infatti sembra condividere il desiderio di salvaguardia di questi animali fino al punto che molti alberghi e ristoranti del paese non servono più piatti a base di pinne di squalo.

La pesca sostenibile però deve essere un caposaldo per il benessere del nostro pianeta, per il mantenimento della biodiversità e per l’equilibrio ambientale globale.

La politica, ignorando ancora una volta il problema, incrementa la pesca dissennata inoltre non attivandosi in maniera decisa per incentivare la pesca sostenibile, dimentica come la scomparsa anche di solo poche specie produca gravi effetti ai livelli più alti della catena alimentare, effetti che una volta prodotti non potranno più essere cancellati.

Carmela Giambrone/Kia per greenreport.it


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