La grande bellezza è un film affascinante ma imperfetto, squilibrato in molte parti, rimpinzato di dialoghi artefatti. Come spiegarne allora il consenso planetario ottenuto, suffragato peraltro dalla vittoria dell’Oscar? Sarebbe troppo semplicistico dire perché mette in scena la concezione (stereotipata, vagamente Kitsch) che il mondo ha dell’Italia contemporanea, sì bella e perduta: un Paese abbarbicato ai fasti del passato storico che si protende su un presente vuoto e privo di valore/i. C’è molto, molto di più.
Sorrentino ha saputo cogliere con rara potenza espressiva lo spirito del tempo che aleggia sull’intera civiltà occidentale postmoderna, arenatasi in una grave crisi di identità sociale, culturale, politica. Lo ha fatto raccontando la disperata inutilità della Roma attuale ma arricchendo il testo filmico di uno sguardo alto, visionario, che lo rende drammaticamente universale. Se esiste una via di salvezza, essa consiste in un percorso di ritorno alle nostre radici per ricostruirne il senso, in modo da produrre un cambiamento e una realtà nuova nella quale riconoscerci.