Giorgio Napolitano con Mario Monti, Enzo Moavero Milanesi e Andrea Riccardi (Foto di Paolo Giandotti)
Sarà il governo della «economia verticale» e delle «astensioni variabili». Ebbene sì, sono questi i due slogan che sintetizzeranno il nostro futuro prossimo venturo. Le risposte, insomma, alle nostre emergenze nazionali. La prima è trovare subito 25 miliardi di euro per tenere a bada i mercati e per proteggere l’Italia sotto attacco permanente: per gli speculatori, Mario Monti e Silvio Berlusconi uguali sono. I parassiti finanziari sono fatti così, non guardano in faccia a nessuno. Ora neanche a Nicolas Sarkozy.
Il secondo problema italico, invece, è tutto politico: il «Supplente della politica», Monti appunto, dispone solo sulla carta di una solida maggioranza. La verità parlamentare racconta invece il contrario: faide, litigi, guerre tra bande al governo tecnico o di emergenza (a seconda dei punti di vista). E allora il dubbio è: come farà quest’uomo a tenere assieme Pd, Pdl, Idv e i loro ammennicoli, cioè correnti e partitini vari? Analizziamo la situazione.
Il verticalismo
In dottrina, l’espressione «economia verticale» ha assunto tanti e diversi significati. Ma è contenuta anche in uno studio riservato, elaborato alcuni mesi fa dal neopremier insieme ai suoi studenti della Bocconi. In questa sua accezione, la verticalità basa tutto sulla costruzione, altamente filosofica, di una «società dei giusti e dei migliori» sussidiaria ai bisogni «degli indigenti e degli emergenti». Insomma, una versione contemporanea dell’economia sociale di mercato (vedere l’articolo a pagina 30) assai cara a Monti e ai montiani.
Lo studio parte da un dato semiclandestino. La spesa corrente dello Stato è quantificata in circa 800 miliardi di euro. Ma la somma realmente impiegata è di «appena» 500 miliardi. Ovverosia il 32,4 per cento del prodotto interno lordo, il livello più basso d’Europa, meno anche di Germania e Francia. I restanti 300 miliardi si compongono di due voci: interessi (80 miliardi di euro) e rifinanziamento del debito pubblico (220 miliardi). Ecco, se l’Italia riuscisse a eliminare questo stock di denari, ce la facesse a pareggiare il bilancio e a tenersi su un avanzo primario (la differenza fra le entrate e le spese pubbliche) del 5 per cento, nel 2014 il debito pubblico scenderebbe dal 120 al 112 per cento. Già così si griderebbe al miracolo. I mercati ne sarebbero immediatamente rassicurati, più in generale la crescita si riattiverebbe e il circuito virtuoso potrebbe portare il debito tra il 100 e il 105 per cento nel 2015. A quel punto saremmo oltre il prodigio. In questa visione delle faccende economiche, servirebbe dunque reperire molto più dei 25 miliardi necessari per l’immediato.
Come si fa? Dimenticare, prego, i tagli orizzontali (cioè non selettivi) di Giulio Tremonti: Monti cercherà di fare esattamente il contrario. Anzi, per ogni voce estremizzerà l’analisi di costi e benefici. E tenterà di colpire i privilegiati.
Stiamo alla previdenza, per esempio. Nel piano del presidente professore ci sono l’abolizione delle pensioni di anzianità, il passaggio definitivo per le pensioni di vecchiaia al sistema contributivo e l’equiparazione uomini-donne. Parallela correrà però una stretta ai baby e ai pluri (titolari di più assegni) pensionati, i cui diritti acquisiti possono essere ridiscussi «entro i limiti della ragionevolezza». Cosa che non sostiene (soltanto) Monti, ma anche la sentenza 416/1999 della Corte costituzionale. Una sentenza «casualmente» dimenticata da Dio e dagli uomini (politici).
Quanto alla dismissione del patrimonio pubblico, mettere sul mercato milioni di metri cubi è inimmaginabile. Da un lato si deprezzerebbero immediatamente le proprietà private degli italiani, dall’altro si rischierebbe di lasciare invenduta gran parte del patrimonio. Dunque, lo studio ipotizza il conferimento degli immobili di Stato a un fondo immobiliare da quotare possibilmente in borsa. Come già è stato fatto per Enel ed Eni.
Nella visione montiana è poi assai opportuna una campagna di sensibilizzazione per fare acquistare debito (cioè Bot e Cct) agli italiani. Per una ragione molto semplice: più il debito è nazionalizzato, meno è esposto agli speculatori. In Giappone, dove il rapporto debito/pil è spaventoso (223 per cento), non si sono per ora verificati effetti catastrofici, anzi. Lì, infatti, il 93 per cento del debito è nelle mani degli investitori nipponici. Impossibile che speculino su loro stessi.
Ancora: al momento della sua redazione, lo studio prevedeva il ritorno dell’Ici, ma solo sulle seconde case e sulle prime case di lusso (farebbero fede le rendite catastali, da aggiornare). Anche la patrimoniale coinvolgerebbe esclusivamente i capitali che superano la soglia di protezione da stabilire. Riguardo ai costi della politica, i montiani chiedono l’abolizione delle province e la contemporanea esaltazione delle aree metropolitane; reclamano la cassazione definitiva delle municipalità (fattibile anche con legge ordinaria); si spingono a teorizzare l’accorpamento delle regioni. Infine, ritengono urgente la riduzione del numero dei parlamentari. Un punto, in verità, sul quale il premier è in abbondante compagnia. Ma, va da sé, solo fuori dal Parlamento.
Il variabilismo
Per l’immediato l’agenda Monti prevede dunque di usare lo strumento del decreto legge. Ma finché si tratta la teoria l’unità delle forze politiche è scontata. È quando si entra nella pratica che la faccenda si intrica. L’acerbità politica di Monti si è vista nei primi giorni delle consultazioni, quando invece di presentarsi da uomo forte, con programma e ministri suoi, il premier incaricato si è affaticato in colloqui stile Prima repubblica. Si è così incartato, il «Supplente», da costringere il super Supplente, cioè Giorgio Napolitano, a riparlare con i più importanti capipartito. Commenta con Panorama il governatore campano Stefano Caldoro, del Pdl: «Sulla crisi il capo dello Stato fa discorsi straordinari: fosse lui il leader, a sinistra vincerebbero per trent’anni di fila». Già. Ma poi è persino scontato che in Parlamento girino le prime, acide, battute: «Monti presidente del Consiglio? Macché, è solo il ministro dell’Economia del governo Napolitano».
Insomma, sono bastati pochi giorni e il neopremier ha già perso un pizzico della sua aura di fronte all’ammucchiata parlamentare che va dal Partito democratico di Pier Luigi Bersani al terzo polo di Pier Ferdinando Casini e al Popolo della libertà di Berlusconi. Prova ne sia il rifiuto di Pd e Pdl a dare vita a un governo «politico». Rifiuto che, almeno in termini teorici, accorcia di per sé la vita dell’esecutivo. La tesi prevalente è che, fatte le cose essenziali con Monti, si torna alle urne, anche per una ragione ulteriore: altrimenti, in molti (da Casini a Romano Prodi) dovrebbero rinunciare in partenza al sogno del Quirinale. Il «Supplente» diventerebbe automaticamente titolare. Chissà come finirà. Certo è che Monti adesso ha e rivendica le mani libere. Nell’immediato, significano una pletora di accademici al potere, un’età media dei ministri piuttosto alta, poche donne nell’esecutivo. E, fin qui, i partiti (che certo non brillano per innovazione) ci possono pure stare. Ma sui singoli provvedimenti come si fa?
Per esempio, far digerire la riforma delle pensioni a Bersani e alla Cgil di Susanna Camusso, sua alleata, sarà un’impresa: col rischio concreto di balcanizzare ancor di più il Pd. Parallelamente, Ici e patrimoniale certo non eccitano il Pdl, che dovrà almeno turarsi il naso. E però, spiega a Panorama il democratico Umberto Ranieri, pupillo di Napolitano, «i politici torneranno a fare la loro parte, ma ora devono lasciare spazio al tecnico im-pro-ro-ga-bil-men-te: non c’è alternativa». Aggiunge Francesco Boccia, economista, deputato, sempre del Pd: «Niente distinguo, il tempo degli interessi partigiani è scaduto».
Ed ecco dunque l’escamotage. I tempi cambiano e con essi le formule politiche. Con Monti non ci saranno più le «maggioranze variabili» bensì le «astensioni variabili». Cioè: se è impossibile chiedere al Pd di votare la riforma delle pensioni, lo è anche domandare al Pdl di sostenere la patrimoniale. Dunque i partiti ipotizzano di astenersi a seconda dei provvedimenti. E sopravvissero tutti felici e contenti. Variabilmente, però.