Licia Satirico per il Simplicissimus
Proprio stamattina il Simplicissimus parlava dei mentitori della domenica, ex grandi giornalisti ormai dediti ai sermoni per gli amici con lo stesso zelo riservato ai nemici di un tempo. Oggi, per l’appunto, Eugenio Scalfari scaglia un duro attacco contro Gustavo Zagrebelsky, reo di aver illustrato – su “Repubblica” del 17 agosto scorso – le conseguenze giuridiche e politiche del conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente della Repubblica davanti alla Corte costituzionale sulla nota querelle delle intercettazioni disposte dalla procura di Palermo.
Nel suo editoriale l’ex presidente della Corte costituzionale ha detto con chiarezza come la Consulta, in questo caso, sia chiamata a pronunciarsi su una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti: non si tratta, infatti, di una controversia su un singolo potere del Capo dello Stato, ma della posizione stessa del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale. Ed è una disputa dall’esito scontato, «la richiesta di un’alleanza in vista di una sentenza schiacciante». Alla Corte si chiede di dire che l’irresponsabilità del presidente della Repubblica è anche «intoccabilità, inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica per il fatto di essere presidente della Repubblica»: la figura del Presidente e le sue prerogative non sarebbero, per l’avvenire, mai più le stesse. Per Zagrebelsky l’iniziativa presidenziale ha giocoforza rappresentato il perno di un’operazione di discredito, di isolamento morale e di intimidazione nei confronti di magistrati che lavorano per portare alla luce la trattativa stato-mafia. Da qui l’invito a un ripensamento, nell’interesse comune della Costituzione e di una verità grande quanto lo scandaloso tentativo di nasconderla.
A poche ore dalle sconcertanti dichiarazioni di Monti sul presunto abuso delle intercettazioni, Scalfari rincara la dose a modo suo, accusando il costituzionalista di prestarsi a una campagna diffamatoria contro il Quirinale: prima rintuzza Zagrebelsky facendogli una lezione di diritto costituzionale, poi lo accusa di scorrettezza per aver ipotizzato pubblicamente l’esito del giudizio. Ma il meglio arriva dopo, quando il fondatore di Repubblica accenna a considerazioni a suo avviso «pertinenti ma non inerenti» e tuttavia dilaganti.
La prima stoccata riguarda l’esito delle indagini sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio, finora sfociate solo nella condanna a diciassette anni di un mafioso accusato dell’omicidio di Borsellino e scagionato dopo otto anni di carcere duro: un attacco alla magistratura, dipinta come incapace e in mala fede, che conferma in pieno la strategia di delegittimazione denunciata da Zagrebelsky. Una considerazione di questo tenore sui magistrati palermitani avrebbe potuto farla Berlusconi, ma non l’ha mai fatta nemmeno lui: c’è da meditare.
La seconda riflessione esondante distingue tra trattativa e trattativa: ci sono trattative passabili e inaccettabili, plausibili e implausibili. La trattativa tra le parti è pressoché inevitabile, scrive Scalfari, «per limitare i danni. Si tratta per seppellire i morti, per curare i feriti, per scambiare ostaggi. Avvenne così molte volte ai tempi degli anni di piombo. Il partito della fermezza che non voleva trattare con le Br, e quello della trattativa. Noi fummo allora per non trattare; socialisti, radicali e una parte della Dc erano invece per la trattativa. A nessuno però sarebbe venuto in mente di tradurre in giudizio Craxi, Martelli, Pannella, ed anche Sciascia e molti altri intellettuali che volevano trattare». D’altro canto, la trattativa stato-mafia sarebbe irreale perché presupporrebbe un’improbabile mafia ridotta al lumicino, che sarebbe tornata in vita grazie all’aiuto dello Stato.
Sciascia, chiamato in causa a sua insaputa, avrebbe definito impostura questa operazione: una macchinazione narrativa più o meno accorta di prestidigitazione verbale, con manovre sapienti, omissioni e arabeschi caotici. La manipolazione studiata della realtà confonde autori e vittime, ribalta i ruoli, ricostruisce e ridipinge maliziosamente a uso dei lettori e dei media compiacenti. Non comprendiamo se Scalfari abbia inteso dire che, se trattativa c’è stata, non si può certo accusare la classe politica di allora di aver fatto ciò che tutti hanno sempre dovuto fare per tirare a campare, o se la trattativa stato-mafia sia un’elegante balla nata da una premessa poco credibile: in entrambi i casi, l’affermazione è di portata epocale e si commenta da sé.
È però l’ultima riflessione “non inerente” ad essere odiosa: Scalfari parla di Falcone cercando di fargli dire ciò che da vivo non ha mai detto, richiamandone poi la morte tragica e ancora senza mandanti. Falcone non ha rinviato per niente il momento di occuparsi delle connessioni tra mafia e politica: è stato fermato col sangue, come Borsellino, su quella soglia che ancora oggi imbarazza fino a creare conflitti di attribuzione. La morte di Giovanni Falcone parla in modo assordante della verità negata, trasfigurata, ricostruita e misconosciuta che oggi è affidata ai giudici di Palermo, ancora inopportuni e isolati come Falcone e Borsellino. Ma questo Scalfari non lo ricorda più.