Scrivere è una tortura. È il più sottile piacere masochistico che un uomo possa darsi. Michael Cimino
È con questa citazione che si apre il libro “Lo spettatore immobile. Ennio Flaiano e l’illusione del cinema” di Giacomo Ioannisci, (Ed. Bietti) dedicato al celebre artista e intellettuale abruzzese. Conosco personalmente Giacomo , laureato in Editoria e Giornalismo e collaboratore di diversi quotidiani e riviste specializzate in cinema, letteratura e musica ma per me è prima di tutto un amico, di quelli ritrovati con piacere dopo tanti anni e per questo come non dargli spazio su Oltreloscoglio? Ancor più se ritengo che quest’ultimo suo libro sia in linea con la filosofia guida dei miei post.
La scrittura ha rappresentato per Flaiano la possibilità di esprimere le sue idee, di opporsi, di criticare e ironizzare sul mondo che lo circondava intriso di ipocrisia. Egli stesso diceva: “Sì, scrivere o fare versi può guarire. Quanto alla mia ironia, o se vogliamo dire alla mia satira, credo che mi liberi di tutto quello che mi dà fastidio, che mi opprime, che mi mette a disagio nella società”. Perché la scrittura certo, dà libertà ma nello stesso tempo aggiungerei, non mente, non ti permette di mentire né a te stesso né a chi scrivi. Non ti permette di guardare le cose attraverso i filtri delle convenzioni.Flaiano è stato scrittore, sceneggiatore, giornalista, critico cinematografico e drammaturgo italiano, una personalità sui generis, spesso incompreso per alcune scelte relative a collaborazioni, amicizie, rifiuti e isolamento. Eppure, come spesso accade, è dopo la sua morte che è stato ri-scoperto o meglio, scoperto in tutto il suo valore di uomo e artista. Giacomo Ioannisci ci conduce in un viaggio nella vita di questo uomo dai baffi folti e gli occhiali, abruzzese come lui e come me, attraverso una raccolta di citazioni, considerazioni e note biografiche sapientemente organizzate e distribuite lungo il percorso di lettura che è stato fluito veloce, trovandomi sorprendentemente in sintonia con il protagonista.
Nato scrittore, Flaiano si è poi trovato nel mondo del cinema, come sceneggiatore ha ricevuto il Nastro d’Argento per il progetto di Roma città libera e il periodo più interessante è senza dubbio quello della collaborazione con Fellini (1951-65) per il quale ha scritto I Vitelloni, La dolce vita, Otto e mezzo e altri celebri film. Purtroppo, la sua sensazione era quella di non riuscire ad ottenere i riconoscimenti meritati e di essere l’ombra del genio riminese mentre continuava a tenere molto alla sua “battaglia” affiché ci fosse una pari dignità tra soggetto, sceneggiatura e regia. A colpirmi maggiormente sono state le considerazioni di Flaiano sulla società, così attuali, quasi sovrapponibili a quelle che avrebbe oggi di fronte all’Italia contemporanea. Il nostro Paese non è mai cambiato, come gli italiani che dimostrava di conoscere bene, come non è cambiato il problema sociale dell’indifferenza da lui sottolineato, la finta democrazia del pensiero. Da qui la filosofia del rifiuto e il pessimismo cosmico, dai tratti leopardiani con in più l’umorismo tipico di Flaiano. “Una volta credevo che il contrario di una verità fosse l’errore e il contrario di un errore fosse la verità. Oggi una verità può avere per contrario un’altra verità, altrettanto valida, e l’errore un altro errore”.
“L’essenziale è continuare, non proponendosi necessariamente di colmare l’infinito, benché il desiderio inconfessato sia questa totalità…”
E dopo le dure considerazioni, attraverso la critica dei film, della società in periodo fascista, si aggiungono quelle degli anni ’60, al consumismo e al degrado culturale.
La mole dei suoi lavori è enorme, la sua poliedricità lo ha avvicinato a una pluralità di generi letterari e interessi. E poi, la sua indole e il suo sentire: sono questi gli elementi che credo, abbiano avvicinato Giacomo Ioannisci a Flaiano, prima ancora delle comuni radici e della comune esperienza di vita romana. È percepibile una particolare empatia, uno sguardo critico comune . A questa empatia sviluppata da Giacomo ora si aggiunge la mia, la possibilità di scoprirla che mi ha dato questo libro è stata essenziale e concluderei con un’ultima citazione che chi passa dal mio scoglio non potrà non sentire un po’ anche sua: “Io forse non ero di quest’epoca, non sono di quest’epoca, forse appartengo ad un altro mondo. È probabile che io sia un antico romano che sta qui, dimenticato dalla storia, a scrivere delle cose che gli altri hanno scritto meglio di me: Catullo, Marziale, Giovenale”.
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