Lo spettro wahhabita che aleggia sull’India

Creato il 26 luglio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

L’ascesa del Wahhabismo nell’Asia occidentale potrebbe rappresentare una seria minaccia all’armonia sociale e alla sicurezza nazionale dell’India. Il quotidiano Jerusalem Post (JP) ha recentemente pubblicato un’illuminante notizia sulla crescente minaccia del Wahhabismo in India. In India spesso si parla propagandisticamente di una minaccia all’interno del nostro Paese e di un Pakistan “talebanizzato”, senza considerare che il Pakistan non rappresenta un’aberrazione nella regione. Lo spettro che perseguita Afghanistan, Pakistan e India (e tutta l’Asia centrale) è in realtà quello del Wahhabismo.

L’articolo pubblicato dal JP è stato scritto dalla professoressa americana Hayat Alvi (per la quale l’India rappresenta il “Paese nativo”) a seguito del suo ritorno dal Subcontinente. L’articolo testimonia i grotteschi cambiamenti che stanno lentamente sfigurando il volta della società musulmana in India. Per ovvie ragioni di convenienza politica il tema della strisciante “wahhabizzazione” dell’India rappresenta uno spauracchio di cui nessun politico indiano, dotato di un po’ di senno, vorrebbe parlare. Tuttavia il cancro sta dilagando. Allo stesso modo, la politica estera opportunistica perseguita dal governo dell’UPA (Alleanza Progressista Unita, United Progressive Alliance) riguardo all’Asia occidentale è evidente. L’India, affascinata dalla liquidità dei Paesi del Golfo, abbassa la voce di fronte alla palese ingerenza dell’Arabia Saudita e del Qatar nella questione siriana.
L’India ha scelto di ignorare la minaccia alla sua sicurezza nazionale rappresentata dall’aumento del Salafismo nel suo “vicinato esteso”, di fatto influenzato dall’Arabia Saudita e dal Qatar, cosi come non ha preso in considerazione il risveglio socio-politico degli strati più bassi della società, conosciuto come “primavera araba”, nelle regioni dell’Asia Occidentale. La mera verità è che non esiste la sicurezza assoluta, contrariamente a quanto pensa l’India. Cosicché l’ascesa del Wahhabismo in Asia Occidentale pone una seria minaccia all’armonia sociale e alla sicurezza nazionale indiana.

L’Arabia Saudita ha acquisito un peso sempre maggiore sulla questione dei diritti umani in Siria. Tuttavia proprio in Arabia Saudita chi protesta va incontro alla pena di morte; non solo le donne non possono lavorare senza il permesso di un tutore maschile, ma neanche guidare e camminare nei luoghi pubblici. Il regime saudita rivendica tutto ciò come un’eredità imprescindibile della cultura del Paese, ma gli stessi prìncipi sauditi danno un’immagine completamente diversa di sé stessi quando assaporano i piaceri della vita nei luoghi di “perdizione” di Beirut e Manama. Le repressioni di massa sono all’ordine del giorno nelle province orientali dell’Arabia Saudita, dove la maggioranza sciita rivendica più potere. Proteste violente sono scoppiate la settimana scorsa a seguito della detenzione di un venerato membro del clero sciita. Le foto pubblicate su internet raccontano una storia di crescenti rivolte popolari contro il regime saudita e la dirigenza wahhabita.

Dato il paradosso della crisi siriana, in seguito alla guerra civile in corso nel paese fomentata dall’Arabia Saudita e dal Qatar, era solo questione di tempo prima che la Comunità Internazionale sollevasse dubbi sul gioco pericoloso della wahhabizzazione che sta avvenendo nel Medio Oriente. Mosca ha fatto proprio questo. Il rappresentante russo per diritti umani, democrazia e stato di diritto, K.K. Dolgov, ha rilasciato una dichiarazione martedì a Mosca esprimendo “grande preoccupazione” a riguardo degli ultimi incidenti dovuti alla repressione anti-sciita nelle province orientali dell’Arabia Saudita. La Russia ha chiesto al regime saudita di cambiare i suoi metodi repressivi e le sue politiche settarie assicurando invece “l’osservanza dei diritti umani convenzionali, inclusi la libertà di espressione ed opinione, la libertà di associazione e dimostrazione pacifica”. Questa è una dichiarazione netta e senza precedenti. La Russia ha tutte le ragioni per non cadere nella trappola occidentale della Guerra Fredda che la dipingeva come l’antitesi dell’Islam. Tuttavia il parlar chiaro della Russia è supportato da motivazioni convincenti. La Russia rischia di perdere molto se il virus del wahhabismo si diffondesse nel “Grande Medio Oriente”. Tracce di wahhabismo sono già apparse nel nord del Caucaso e nelle steppe dell’Asia centrale. La valle di Fergana è in fermento. L’Afghanistan è diventato il giocattolo dei Wahhabiti. Il Pakistan è in ebollizione. Evidentemente Mosca ha stimato che fosse il momento opportuno per mettere a nudo l’ipocrisia del regime saudita come paladino della necessità di riforme democratiche in Siria.

Ma i sauditi non sono certo abituati ad essere accusati. Da allora Riyadh ha restituito il colpo affermando che Mosca sta indulgendo in uno “sfacciato ed ingiustificato intervento” negli affari interni sauditi – che è esattamente ciò che sta facendo Riyadh in Libia, Siria, Bahrain, Yemen ed Egitto. La critica diretta della Russia farà vergognare il regime saudita? Impossibile. Non è soltanto una questione di noncuranza dei sauditi, ma finché gli Stati Uniti guarderanno da un’altra parte e acconsentiranno alle politiche del regime saudita, non esiste nessun motivo di preoccupazione per Riyadh. E Washington, dal canto suo, è soddisfatta della situazione. Dopotutto, i prìncipi sauditi mantengono depositi di miliardi di dollari nelle banche statunitensi, oltre a fare investimenti che nutrono l’economia americana. Il regime saudita ha appena ordinato armi per un valore di 60 miliardi di dollari. Quindi, perché gli americani dovrebbero perdere il sonno se i sauditi propagano il Wahhabismo? Nell’eventualità che ciò accada, le ripercussione ricadrebbero su paesi come l’Afghanistan, l’India o il Pakistan, mentre il mondo occidentale non avrebbe niente di cui preoccuparsi.

Inoltre gli Usa stanno sperimentando il potenziale dell’Islamismo come strumento di politica regionale. In Egitto, Washington aspira ad essere mediatore tra i Fratelli Musulmani e la dirigenza militare. La Libia è un altro laboratorio nel quale lo sfruttamento delle forze radicali dell’Islam è dilagante. Nello stesso Afghanistan, l’inutilizzato potenziale dei militanti islamici sta attirando l’attenzione americana. Secondo Washington, l’Islamismo è lo strumento che potrebbe essere utile per forzare un “cambio di regime” in Asia centrale. La situazione in quest’area è matura per una rivoluzione islamica in assenza di un’opposizione democratica ai regimi autoritari. Inoltre, i militanti afghani si stanno preparando ad una futura campagna jihadista istituendo campi di addestramento nelle montagne della regione di Badakhshan, vicina al confine tajiko. Aldilà dell’Asia centrale si trova inoltre la regione autonoma cinese del Xinjiang. L’ascesa dei Talebani in Afghanistan sarebbe esattamente l’ispirazione che i jihadisti stanno cercando per fare un accordo per il potere politico in Asia Centrale. D’altro lato, la crescita del militantismo islamico fornisce un pretesto perfetto agli Usa, quello della lotta contro Al-Qaeda, per stabilire una sua presenza militare nella regione dell’Asia centrale allo stesso modo in cui si cerca di giustificare il coinvolgimento nel lungo periodo degli eserciti occidentali in Afghanistan.

La Professoressa Alvi ha ragione: “Non dimentichiamoci che il Wahhabismo è una delle ideologie che ha ispirato la nascita del Talebani, che pongono alla base del loro credo l’indottrinamento e l’interpretazione forzata di un islam ultra-ortodosso. Queste ideologie giungono in maniera subdola, come nel caso dell’India, attraverso la loro “importazione” da parte degli emigrati di ritorno dai Paesi del Golfo”. Purtroppo la Professoressa Alvi ha tralasciato il fatto che il fascino saudita si sta diffondendo anche tra le elite indiane. Non sorprende che i lobbysti indiani “pro-Usa” siano anche diventati i tirapiedi del regime saudita. Con parole loro: “E’ la geopolitica, stupido!”. Ma non bisogna dimenticare che la Jihad afghana degli anni ottanta è stata anche concepita come un gioco geopolitico tra gli Usa e l’Arabia Saudita, così come è stata attribuita alla geopolitica la nascita del movimento talebano nei primi anni novanta in Afghanistan. I sauditi hanno trovato attraente l’idea che un movimento Wahhabita al potere in Afghanistan possa essere l’antidoto perfetto contro il diffondersi dell’influenza iraniana nel Paese. Il Wahhabismo è anche percepito dai sauditi come strumento “post-sovietico” in Asia Centrale. Gli Usa dal canto loro trovarono i Talebani irresistibili perché il Mullah Omar avrebbe “stabilizzato” l’Afghanistan, dove UNOCAL (per la quale Hamid Karzai lavorava come consulente) avrebbe potuto costruire un gasdotto che avrebbe collegato il Turkmenistan con il porto di Karachi. Il Pakistan desiderava invece che i Talebani fossero il perfetto strumento strategico per mantenere l’Afghanistan per sempre sotto il suo giogo.

Così, l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti e il Pakistan si allearono e si divertirono conducendo i Talebani a Kabul alla metà degli anni novanta. L’Arabia Saudita finanziò i Talebani e l’esercito pakistano li incitò sul campo di battaglia, mentre la diplomazia americana definiva il loro potenziale geopolitico. Alvi sottolinea come l’Afghanistan diventò fortemente suscettibile ad una “competizione ideologica” tra il Sufismo e il Wahhabismo. Il resto è storia.
La “competizione ideologica” sta prendendo piede anche in India, come Alvi descrive puntualmente. Un fatto nondimeno scioccante è che una forte censura da parte del regime saudita stia avvenendo in India riguardo alla fallace accusa degli esperti strategici indiani che Riyadh stia scaricando il Pakistan come suo alleato e stia per diventare un alleato chiave dell’India nella lotta contro il terrorismo. Questa situazione ricorda quella di “Aspettando Godot” – gli esperti indiani hanno aspettato per anni che i leopardi sauditi cambiassero il loro colore, diventando zafferano – ignorando o volendo essere inconsapevoli della profondità delle relazioni saudite-pakistane. Naturalmente, a Washington a questo punto conviene diffondere l’infondata verità di un’ipotetica alleanza indo-saudita-americana per combattere il terrorismo nella regione. In una prospettiva di lungo periodo, l’India si è rivelata miope alla minaccia del Wahhabismo nel suo “vicinato esteso” e anche in alcune parti all’interno dello stesso Paese. L’odierna sventura siriana potrebbe rappresentare il futuro per l’India. Scrive Alvi: “Se qualcuno ha bisogno di una prova dell’intolleranza e dell’ignoranza Salafita/Wahhabita, guardi che cosa hanno fatto recentemente al mausoleo di Timbuktu, in Mali, considerato patrimonio dell’umanità, così come alcuni anni fa i Talebani dimostrarono lo stesso atteggiamento quando distrussero l’antica statua del Buddha a Bamiyan, in Afghanistan.”

(Traduzione dall’inglese di Lavinia Ruscigni)


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