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Mercoledì 8 agosto 2012
Aσκήσεις (2): Lo spirituale un tempo
Proprio quando sembrava che fosse più difficile farlo mia madre ci impose il digiuno. Eravamo bambini. Eppure, ogni venerdì era prescritta l’astinenza. Non ricordo bene come trascorresse la giornata. Non si trattava per i piccoli di un digiuno totale. Ricordo, però, che piangevamo. Chiedevamo cibo a nostra madre.
Successivamente scoprimmo la parola penitenza. Poi, pentimento, riparazione, perdono, indulgenza. Nelle ore di Catechismo si discuteva di teologia. Imparammo a memoria dogmi, comandamenti, principi, regole di ogni genere.
Il sentimento fondamentale era la paura. Non che venisse raccomandata. Gli adulti facevano di tutto, però, perché i nostri comportamenti non deviassero mai dalla norma stabilita. Era previsto anche il timore di Dio. Le punizioni erano corporali, ma spesso si veniva additati al pubblico ludibrio, quando qualcuno veniva smascherato o colto in flagranza di reato. Se a scuola ci picchiavano, preferivamo non riferire a casa, per evitare altre botte. La scuola aveva sempre ragione.
In classe c’era una bambina di nome Maria Cristina a cui era morta la madre. Ogni giorno, tra le varie preghiere era previsto che si rivolgesse il pensiero alla madre di Maria Cristina. Lei piangeva regolarmente.
Dovevamo pensare alla morte almeno nove volte al giorno. Almeno, era quello che ci dicevano di fare.
Il ritiro spirituale precedeva le grandi occasioni e l’esperienza dei Sacramenti.
A maggio, bisognava fare ‘fioretti’ per la Madonna. A giugno, per il Cuore di Gesù.
La Confessione era rito complesso. C’era chi si scriveva l’elenco dei peccati, per non tralasciarne nessuno. Era consentito chiudere la confessione con la formula: “Padre, mi perdoni anche per i peccati che non ricordo”. Naturalmente, nel gruppo dei maschi più coraggiosi si stabilì di correre alla formula per evitare l’esperienza spiacevole dei rimproveri e delle punizioni severe. Di regola, il sacerdote prescriveva tre Padre Nostro, tre Ave Maria, tre Gloria al Padre. I peccati più gravi, però, portavano le preghiere riparatrici a numeri elevati, che richiedevano anche giorni interi. Per non rubare a Dio, poi, bisognava scriversi le preghiere che restavano da recitare ancora.
Chi riusciva a prendere l’Eucarestia il primo venerdì del mese, per nove mesi consecutivi, si guadagnava il ‘riscatto’ delle pene del Purgatorio. Io riuscii nell’impresa, ma non osai pensare mai che mi si sarebbero spalancate le porte del Paradiso. Dell’aldilà, di cui parlavamo ogni giorno, poi, non avevamo una visione chiara. Credo che fosse sostanzialmente quella dantesca. Fiamme e sofferenze nell’Inferno, penitenza ed espiazione nel Purgatorio, premio nel Paradiso. Del premio si parlava poco, essendo per lo più impegnati ad esorcizzare paure e anatemi di ogni genere.
Sapevamo che i comunisti erano stati scomunicati. Noi ci sentivamo al sicuro, perché in famiglia eravamo democristiani. Quando la radio dette la notizia dell’invasione dell’Ungheria, io ero a letto con l’influenza. Quando rientrai a scuola, trovai tutti impegnati a pregare per i bambini ungheresi.
Tutto quello che stava al di sopra di noi era oggetto di rispetto e venerazione, dal bidello al Papa e oltre. Amavamo tutti quelli che facevano qualcosa per noi. Ed erano veramente tanti. “Onora il padre e la madre” incuteva in noi un sacro timore. Mai nessuno osò sollevare lo sguardo fino a loro, per esprimere disappunto, rammarico, risentimento. Ci limitavamo a piangere, per le imposizioni quotidiane e per le punizioni altrettanto regolari. Abbiamo pianto a lungo.
Ricompensa, riconoscenza, gratitudine erano note anche ai bambini.
Io ero convinto che le donne belle fossero tutte ricche. Siccome io ero povero, pensavo che non mi sarei mai sposato. Non avevo ancora realizzato che mia madre era povera e si era sposata regolarmente. Ed era bella, per me. Certo, non come quelle che si vedevano sui giornali, ma non avrei mai osato pensare che fosse brutta. Era un altro ordine di cose. Nella mente non si incontravano mai i sogni dell’amore e della bellezza con l’esperienza quotidiana. Perché mio padre e mia madre si fossero sposati restò un mistero. Non osavamo pensare che avessero generato noi con un atto sessuale. A scuola, le suore ci avevano descritto la cosa come atto da evitare. Sicuramente, loro avevano evitato. Non li ho mai visti abbracciati. Non si sono mai toccati davanti a me. Era conoscenza acquisita e condivisa il disprezzo del corpo e della sessualità.
Solo in prima media, quando i miei coetanei mi fecero scoprire la masturbazione, incominciai a rendermi conto dell’assurdità di tutte le cose che non ero mai riuscito a pensare ‘organicamente’. Avevamo idee confuse che i più grandi provvidero a incenerire in pochi giorni. Scoprimmo le ragazze, la possibilità di ‘pomiciare’ con loro. Bastava organizzare una festa da ballo e assegnare a qualcuno il compito di spegnere le luci al momento opportuno. Nonostante il buio, però, a me non fu dato mai di scoprire le ragazze da vicino. Quello che facevano i più grandi rimase un mistero. Probabilmente, non facevano un bel niente. Nei cinque anni trascorsi nel Liceo della città, fu possibile vedere nascere una sola coppia. Per il resto, le ragazze erano lì, ma non osavamo avvicinarci a loro. Come avremmo detto dopo, eravamo imbranati. Circolava la voce che il sesso era esperienza che avremmo conosciuto solo dopo il matrimonio. I grandi del quartiere parlavano di Ines, una prostituta della città nota come la contessa Volpone. Per il resto, riviste come Playboy, film erotici, fantasie, racconti improbabili.
La letteratura ci insegnò cosa fosse l’amore, ma anche in quel campo le idee erano confuse. Dante ci convinse di una cosa, Petrarca di un’altra cosa. Quando arrivò Boccaccio eravamo alla confusione. Di amore non parlava mai nessuno. Dopo cinquant’anni, non abbiamo ancora finito di scoprire cosa sia veramente! E non si può dire che ci sia accordo fra di noi, che sia pacifico cosa si debba intendere per amore. L’unica cosa chiara è cosa si debba evitare – ammesso che tutti siano disposti ad evitare! -, ma l’errore appare chiaro solo dopo averlo commesso. E non tutti ci giurerebbero sopra. L’elenco completo degli errori resta esercizio sterile, se poi non si arriva alla chiarezza su cosa ci sia di buono da fare. Resta un mistero il fatto che questa bontà non sia riconosciuta e praticata da tutti senza fatica. Evidentemente, non siamo fatti per stare sulla strada maestra. Ci piace immaginare cose proibite e impossibili. Desideriamo la donna d’altri. Ci esercitiamo ancora a spogliare con lo sguardo tutte le donne che ci accade di incontrare… Della sessualità maschile non sappiamo più cosa pensare, una volta decretata la morte del Maschio. Se è facile consentire sulla necessità di abbandonare ogni Metafisica del sesso, cioè sulla considerazione assoluta di una ‘natura’ maschile e di una ‘natura’ femminile intemporalmente considerate, un po’ meno facile è fare i conti con la tendenza femminile a giudicare la sessualità maschile come violenta e orientata esclusivamente alla genitalità.
Dei fantasmi del passato resta solo un pallido ricordo, ma sono sempre convinto del fatto che negli anni della formazione sono stato ‘scolpito dentro’ da persone che mi fecero vedere una parte di realtà, lasciando in ombra quello che era più importante conoscere.
Oggi sono ancora, inevitabilmente quello di un tempo. La risacca del passato mi riporta agli antichi terrori e a un ‘dover essere’ fatto di facili costrizioni a cui mi sottometto ancora volentieri. Debbo scegliere di stare bene, di aprirmi al mondo, di avere fiducia negli altri… Debbo darmi il permesso di essere felice, perché trovo più naturale fare soltanto in modo che gli altri intorno a me lo siano. Quanto della mia natura dipenda da ‘quella’ educazione è stato sempre un compito per me. Stabilire fino a punto rendere omaggio ancora ad insegnamenti che sono stati operanti per decenni in me è un lavoro della coscienza a cui non riesco a sottrarmi. Decidere se un ammaestramento basato su sacrifici e rinunce sia ammissibile oggi, in tutto o solo in parte, è questione aperta.