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Lo spreco dei talenti – un circolo vizioso

Creato il 04 gennaio 2014 da Carturco @carturco

Una analisi, tra le tante, particolarmente interessante e, purtroppo desolante che lavoce.info ha pubblicato lo scorcio dicembre è quella che riguarda la cattiva allocazione delle risorse produttive, a cura di F. Hassan e G.I.P. Ottaviano. Purtroppo c’è da aspettarsi che, come al solito, anche di questo contributo si terrà assai poco conto in tutti quegli ambiti in cui si grida alla necessità del cambiamento, senza mai decidersi a riconsiderare luoghi comuni, pregiudizi, senso comune basati su ignoranza e approssimatività, e di cui tutti non di rado siamo portatori e vittime più o meno compiacenti.

A conclusione del loro studio,  gli autori rilevano che se si procedesse ad una redistribuzione casuale – proprio così, a casaccio, senza  nessun  criterio programmatico connesso a settori, territori, dimensioni, ecc. – delle risorse capitale e lavoro tra le imprese manifatturiere, la produttività del settore… aumenterebbe del 6%!

Applicando un particolare metodo di analisi della qualità delle pratiche manageriali nel settore manifatturiero, gli autori pervengono infine alla conclusione che:

“a)   le imprese italiane promuovono i lavoratori principalmente sulla base dell’anzianità, invece di identificare e promuovere attivamente i migliori;

b)   i manager tendono a premiare le persone tutte allo stesso modo e indipendentemente dai loro risultati, invece di fornire obiettivi e premi di risultato;

c)   i dipendenti che producono scarsi risultati raramente sono rimossi dalle loro posizioni;

d)   i dirigenti non sono valutati sulla base della forza del gruppo di talenti che hanno attivamente contribuito a costruire, ed è perciò probabile che non considerino una priorità la ricerca e lo sviluppo del talento.”

Insomma, a me sembra che tutto questo sia come dire che, in seno al settore produttivo privato, i comportamenti organizzativi e manageriali non differiscono gran che da quelli che si considerano tipici del (nostro) settore del pubblico impiego e delle pubbliche amministrazioni.

Viene allora da chiedersi: ma su quali basi e argomenti un vasto (quanto solitamente vociante) novero di  politici, sindacalisti, opinionisti, considerati autorevoli, lanciano ricorrentemente grida d’allarme sui rischi che sarebbero connessi all’estensione di criteri aziendalistici di efficienza e produttività alla gestione dei pubblici servizi? E su quali fondamenti tanti commentatori, tra loro, basano lo snobismo sarcastico con cui proclamano che solo a sentir parlare di meritocrazia gli viene l’orticaria?

Non sarebbe male se costoro, cominciassero a chiedersi – accantonando certezze aprioristiche e pregiudizi ideologici – se forse, tra le cause di fondo del declino italiano non possa essere proprio questa incapacità, che sembra aver permeato l’intero settore produttivo, a mettere in atto un management del personale capace di valorizzare, incentivare e premiare talenti e competenze reali. Invece di affidarsi ai soliti criteri familisti, di fidelizzazione per appartenenza, di amici degli amici, o magari anche solo di “quieto vivere”, che non possono non generare una sfiducia diffusa nel reale valore di meriti e capacità.

Da qualche tempo, a fronte della dirompente occupazione giovanile, se ne evidenzia a ragione l’enorme spreco di talenti che essa comporta: ma questo spreco è figlio di una crescita negata o indebolita anche e proprio a causa di comportamenti e, più in generale, di una cultura indifferenti, se non addirittura ostili, all’emersione e alla promozione dei talenti.

E’ una situazione da circolo vizioso, dalla mortificazione allo spreco dei talenti, quella che occorre spezzare, anche mediante un radicale cambiamento culturale nel confrontarsi con i problemi della produzione e del suo sviluppo: ma i segnali in proposito non sono confortanti.

Non sono soltanto i tagli indiscriminati alla spesa per la scuola a rischiare di tagliare le prospettive di sviluppo del paese: anche la riluttanza a riconoscere l’insufficienza di modelli vecchi e inadeguati nella gestione della scuola, e ad abbandonarli, assume un ruolo decisivo in proposito.

E cosa ci si può aspettare da una scuola in cui si continua  ad arroccarsi  su forme di reclutamento, progressioni retributive e di carriera essenzialmente ed automaticamente legate all’anzianità di servizio? E in cui la stessa formulazione di ipotesi di differenziazioni retributive basate su criteri meritocratici e di contesto operativo scatena reazioni di diffidente ripulsa e denunciata come un potenziale attentato all’autonomia e libertà di insegnamento?

Ma se il cambiamento culturale necessario non viene operato a partire dalla scuola, come si pensa di riuscire ad agevolarne ed accelerarne la diffusione nella società?


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