Parte terza
Il ruolo della piccola borghesia dopo l’Unità.
Il progetto di Mazzini di creare per il popolo intero una “religione laica”, che avesse nello spirito patriottico il sentimento più forte, attorno alla quale si sarebbe stretta e riconosciuta tutta la Nazione, poteva funzionare se avesse avuto una larga base di consenso tra i ceti meno abbienti e poveri, tra la massa dei diseredati: ma i limiti intrinseci di quella ideologia non permisero il suo diffondersi in tutti gli strati sociali. Inoltre, il processo di “accumulazione originaria”, descritto da Marx, cioè il fenomeno di smantellamento del vecchio sistema di produzione e di costruzione del nuovo, che interessò l’Italia nel periodo 1862-97, non permetteva una crescita equilibrata, senza tensioni sociali acute e senza un elevato costo di sofferenze umane. Il modo in cui avvenne questo processo era la negazione evidente di quel che Mazzini e Gioberti avevano creduto che sarebbe accaduto dopo l’unificazione nazionale: anziché regnare l’armonia tra le classi sociali, i conflitti si acuivano sino a raggiungere alcune punte esplosive. Nel momento stesso in cui l’Italia si avviava ad essere un paese industrializzato, i conflitti non potevano essere in nessun modo evitati. Tanto più che si trattava di decidere chi doveva sopportare il costo più pesante di questo processo di accumulazione. In questo senso è chiaro che la decisione spettava a quello schieramento moderato che aveva vinto politicamente e militarmente la battaglia risorgimentale, per cui non era difficile intuire chi infine ne avesse sopportato il peso maggiore. Ma, tornando per un momento al concetto gramsciano di “crisi organica” e a quello relativo di scomposizione e di ricomposizione di un sistema sociale, possiamo dire che, come era prevedibile, quel processo, dopo l’unificazione d’Italia, subì una forte accelerazione. Sta di fatto che questo processo, contrariamente a quanto era avvenuto in Inghilterra, in Italia ebbe un aspetto particolare: ci fu bisogno di un massiccio intervento dello Stato sia nel settore delle opere pubbliche che in quello industriale (le acciaierie di Terni) per motivi strategico-militari. In che modo si concretizzò l’intervento dello Stato?
1) Nella creazione di infrastrutture (vie di comunicazione, ecc.);
2) nelle commesse statali (soprattutto di militari);
3) nel rastrellare capitali attraverso un sistema fiscale (altrimenti non sarebbe stato possibile realizzare né il punto (1) né il (2);
4) impedendo e ostacolando la nascita e il consolidamento delle organizzazioni operaie. Corollario del punto (3) e (4) è stato il rafforzamento di un sistema politico autoritario e lo sviluppo di un sistema protezionistico (il blocco agrario-industriale), sebbene “diversi studiosi lo considerano più un fattore di freno che d’impulso, soprattutto nella prima fase dell’espansione produttiva del nostro paese”. L’industrializzazione del paese provoca una rapida espansione del proletariato, ossia della massa dei lavoratori salariati, e quindi un aumento delle tensioni sociali. Nel rapido processo di “accumulazione originaria”, quindi in presenza di un intensivo sfruttamento del lavoro umano, si rende sempre più necessario intensificare la funzione di dominio. Il consolidamento graduale della funzione di dominio si rende necessario in rapporto all’aumento intensivo di surplus. Se in Italia tutto il popolo avesse partecipato al processo risorgimentale, ora sarebbe stato possibile far valere ognuno la propria voce e distribuire equamente i sacrifici imposti dall’industrializzazione del paese. Il carattere elitario assunto da quel movimento ha impedito una visione “nazionale” del problema, e si è fatto ricadere il costo maggiore sui ceti deboli della società. Ciò ha allargato maggiormente il divario tra la massa dei sudditi e la borghesia, tra il cosiddetto “paese legale” e “paese reale”, è mancato potremmo dire un processo di identificazione tra il paese e lo Stato. Le masse non si sono identificate nella nuova compagine statale: gli ideali risorgimentali erano passati sopra le loro teste senza sfiorarle, e in cambio dei benefici sperati avevano ricevuto un sistema fiscale spietata ed efficiente. Cosicché il sogno di Mazzini di infondere nel popolo italiano la coscienza di essere una sola anima, contro la dura realtà sociale, cominciava a svanire: la plebe, irriconoscente dei sacrifici compiuti dai figli della Patria, cominciava a pensare all’utile materiale, a farsi egoista, a insorgere contro la legittima proprietà, mentre a nord e a sud nascevano le prime leghe, e la parte più cosciente degli operai cominciava ad organizzarsi per avanzare qualche rivendicazione salariale; la plebe, il popolo, idealizzato finché restava un concetto astratto, cominciava ad essere trattato come plebaglia, “vil canaglia”. La parabola ideologico-politica di Giosué Carducci, tracciata da Sapegno, può funzionare come modello esemplare di un atteggiamento dominante nella piccola borghesia imbevuta prima di ideali mazziniani e convertitasi in seguito alla politica autoritaria di un Crispi (altro ex mazziniano).
Ciò che in realtà la grande borghesia, da un lato, e la classe dirigente, dall’altro, non riuscivano ad offrire né alla masse né ai ceti sociali più avanzati era un “sistema di compensazioni” capace garantire la coesione del paese: il benessere materiale, che elevasse culturalmente e socialmente le classi più disagiate, era ancora di là da venire, una crescita burocratica dello Stato, capace di assorbire nell’esercito, nell’amministrazione, nella scuola, una notevole schiera di persone, non era materialmente possibile nel momento in cui la spesa dello Stato era assorbita dalla crescita industriale. Il mondo della borghesia industriale, in sostanza, non aveva uno strumento che riuscisse a saldare i cittadini al sistema, anzi accadeva proprio il contrario. La classe politica non poteva dal canto continuare ad esercitare sul paese una forma di dominio, altrimenti il giovane stato si sarebbe trovato nelle identiche condizioni in cui si trovavano gli stati preunitari, dove sarebbe stato sufficiente una forte e rude spallata per farlo crollare. L’unico collante che restava era il patrimonio ideale del Risorgimento, ma dopo Aspromonte, la guerra del ’66, Mentana, i compromessi della diplomazia, la rinuncia a Roma, ecc., questo patrimonio rischiava di disperdersi. Le generazioni di estrazione piccolo-borghesi, venute dopo l’unità d’Italia, hanno avuto modo di giudicare e confrontare quel patrimonio, lasciato in eredità dai patrioti che si erano battuti nella lotta risorgimentale, con ciò che la classe dirigente tentava di realizzare nell’Italia postunitaria. Presso questi ceti sociali nasce il mito dello spirito risorgimentale “tradito”, al quale poi, nel clima rovente del primo dopoguerra e con il fascismo che bussa alle porte, le correnti liberali si richiameranno per operare una “revisione” storica del Risorgimento, che culminerà nella tesi dell’unificazione italiana come “conquista regia”. E' pur vero che quel patrimonio, alla luce delle cocenti delusioni, ad ogni nuova disfatta e prova mediocre, cominciava ad assumere un alone di grandezza, di nobiltà e di sacra spiritualità, ed essere immerso in un fiume pieno di retorica. Quel patrimonio, in sostanza, cominciò a funzionare come sistema di compensazione per tenere unita la Patria. Per il modo in cui si stava realizzando il processo di accumulazione, il vuoto creatosi cominciava ad essere riempito dalla piccola borghesia, che sempre più timorosa dei conflitti sociali si nominava “custode” di quel patrimonio, alimentandolo con succhi gastrici e spunti di pensiero nuovi. Quando si parla del ruolo avuto dalla piccola borghesia durante il fascismo, ci si dimentica sempre del ruolo che ha svolto nella fase postunitaria: in questa fase, essa assume già la funzione ideologica di dominio, che perfezionerà e sommerà a quella politica quando essa giungerà al potere.
Infatti, sotto il profilo dell’estrazione sociale, il movimento nazionalistico si presentava come un fenomeno piccolo e medio borghese, in quanto i suoi esponenti, “pur se si rivolgevano al mondo della borghesia industriale e produttiva, non provenivano da questo ma erano, in prevalenza, studenti, avvocati, giornalisti, studiosi, scrittori”. La coscienza di esercitare un dominio ideologico all’interno della società è stata chiaramente espressa dallo stesso Papini, quando scriveva che “accanto alla dominazione per mezzo della lancia, ci sia quella dell’intelletto”. Se in questa fase, il nazionalismo non ha tentato neppure lo sforzo per trasformarsi in un movimento di massa è perché ancora una volta, come era successo a Mazzini, non riusciva ad esprimere gli interessi di tutte le classi sociali: solo dopo la prima guerra mondiale, di fronte all’avanzata della classe operaia, quando si identificò con gli interessi della grande borghesia industriale ed agraria, riuscì a trasformarsi in un movimento di massa.
A quel punto, l’ideologia “nazionalistica”, nata dall’armonia delle classi, dalla retorica degli eroi e dei martiri della Patria, ha preparato la concezione etica dello Stato. Lo Stato si trasforma nel mito della Nazione. In questa ideologia le classi medie, di fronte agli sconvolgimenti che caratterizzano la storia europea durante il primo conflitto mondiale, ritrovano il loro collante. Lo Stato liberale, messo a dura prova sotto i colpi della classe operaia del Nord, si lascia passivamente conquistare dalla ideologia nazionalistica. Il fascismo si coagula intorno a questa ideologia, ritrovando tra le classi medie il terreno già preparato. Lo Stato fascista non è concepito come uno strumento di dominio, bensì si pone come Ideale dell’Io. La forma dello Stato, attraverso un processo di sublimazione, viene così idealizzata, e con essa erano idealizzati tutti gli elementi che la costituiscono. Lo Stato etico, concepito l’istanza suprema dell’Io, diventa così il fine ultimo verso cui tutti gli sforzi e le attività dei cittadini si indirizzano. Di conseguenza, essendo lo Stato il fine supremo della vita di ogni cittadino, anche gli interessi che costituiscono la sua sfera saranno prevalenti su tutti gli altri: non si agisce più per i propri interessi, ma per quelli dello Stato. Questa ideologia ha formato le coscienze e forgiato le convinzioni interiori: senza di essa non c’è consenso politico né da parte dei dominatori né da parte dei coadiutori. Il problema quindi del consenso delle classi medie si pone quando la funzione politico-ideologica diventa dominante nel regime fascista. Il problema del consenso al regime interessa tanto le classi dominanti quanto coloro che partecipano al loro dominio, senza esserne i beneficiari diretti: ecco perché in questi regimi il livello ideologico assume un’importanza equivalente a quello politico.