Venerdì Ezzat Ibrahim al Duri, il braccio destro di Saddam Hussein che si pensa abbia avuto un ruolo centrale nell’organizzazione militare dello Stato islamico, ha rilasciato un messaggio audio con il quale smentiva la sua uccisione in battaglia: la notizia era stata data dal governo iracheno qualche tempo fa, ma evidentemente era falsa ─ evidentemente non tanto per l’audio, che dovrà avere ulteriori conferme, ma anche perché non ci sono state informazioni sulle analisi del dna della persona uccisa, circostanza che può far pensare a un match negativo. Sempre venerdì, è stato diffuso un altro messaggio audio, che portava la voce del Califfo Abu Bakr al Baghdadi, che sempre secondo fonti governative di Baghdad doveva essere ferito in gravissime condizioni, se non addirittura morto. Qualche giorno fa, sempre il governo iracheno ha diffuso anche la notizia dell’uccisione del vicario del Califfo Abu Alaa al Afari (colui che, date le pessime condizioni del capo, ne aveva preso il posto), ma anche questa non sembra aver troppe prove sulla veridicità. Quella che invece è una realtà sicura, è che Baghdad ha perso il controllo del palazzo del governo locale di Ramadi, il capoluogo della provincia dell’Anbar, e del quartier generale della polizia: sugli edifici sventola la bandiera nera del Califfato.
Perdere Ramadi non è una cosa da poco. Se quando la scorsa estate l’IS ha preso Mosul, Falluja, Tikrit, e via dicendo, c’è stata la scusante dell’effetto sorpresa, lo stesso non si può dire per la situazione nell’Anbar. Il capoluogo, sulla sponda di destra idrografica dell’Eufrate, era l’unica parte ancora sotto il controllo governativo: la provincia è da sempre tra le più turbolente dell’Iraq, piena di sunniti affiliati al radicalismo jihadista ─ è la terra natia di al Qaeda in Iraq di al Zarqawi, che qui è considerato un eroe nazionale per la resistenza all’invasione americana (Falluja, la città nota per la più sanguinosa battaglia della Guerra d’Iraq, è in Anbar, a pochi chilometri da Ramadi). Da mesi lo Stato islamico sta combattendo nell’area, da mesi il governo iracheno invia rinforzi. Nell’ultimo mese la Coalizione aerea US-led (che prende ordini dall’operazione denominata “Inherent Resolve”) ha condotto nella zona di Ramadi 165 attacchi aeri ─ pochi giorni fa, Alexandre Mello, capo analista per l’Iraq della Horizon Access, una compagnia di consulenza che aiuta le grandi imprese (anche petrolifere) a capire cosa sta succedendo in Iraq e come muoversi, spiegava al Foglio che dall’inizio dei bombardamenti, lo Stato islamico ha disperso i suoi mezzi tenendoli in concentrazioni molto basse; le forze si ammassano soltanto in occasione degli attacchi più importanti, e per questo ha mantenuto alta la sua operatività a dispetto dei molti bombardamenti.
L’Anbar è una provincia nevralgica per lo Stato islamico, perché la sua vasta estensione (è la più grande dell’Iraq, ed è quasi tutta sotto l’IS) arriva fino in Siria e permette di dare continuità territoriale in Iraq all’ampia fascia dell’est siriano. La provincia ospita le principali autostrade di collegamento con la Siria e con la Giordania, e apre la pista per Baghdad (Ramadi si trova a poche decine di chilometri dalla capitale). In Anbar il risentimento nei confronti del governo è forte: è, come detto, una provincia sunnita, che ha subìto le vessazioni del settarismo del governo Maliki più di altre, e dove i clan locali hanno subito sposato la linea del Califfo.
Ad aprile, dopo il successo dell’operazione di riconquista di Tikrit, il premier iracheno Hadar al Abadi, aveva annunciato che il prossimo obiettivo sarebbe stato la liberazione dell’Anbar ─ una fantasia, diceva Mello: «Ripulire tutta Anbar è un’illusione. Probabilmente non tornerà mai sotto il controllo del governo federale iracheno.». A fine febbraio, il Pentagono aveva rivelato alla stampa l’esistenza di un piano per riprendersi Mosul, la secondo città d’Iraq e capitale locale del Califfato. Progetti da rivedere, evidentemente.
Dal dipartimento di Stato americano, inizialmente, si è cercato di sminuire la vicenda dicendo che era una circostanza attesa, e pure il capo dell’Operazione Inherent Resolve, il generale dei Marines Thomas Weidley, ha sostenuto che tutto sommato l’IS rimane sulla difensiva ─ non più di una settimana fa, l’account ufficiale dell’operazione twittava della sconfitta dell’IS in Anbar. Ma poi un nota su una telefonata del vicepresidente Joe Biden con al Abadi ─ in cui l’America ha assicurato all’Iraq l’invio di altre armi pesanti ─ ha chiarito che la situazione era critica e rappresentava una grande sconfitta per il governo iracheno. Tra le nuove armi che gli Stati Uniti si sbrigheranno a mandare in Iraq per rinforzo, sembra che ci saranno anche dei manpads, i lanciamissili da spalla, molto utili per colpire le autobombe che l’IS invia come apri pista all’inizio degli attacchi ─ dai racconti che circolano, per prendere il palazzo del governo, l’IS ha usato buldozzer blindati per spostare i muri anti-esplosione e poi ha lanciato sei autobombe kamikaze che hanno squarciato il fronte dei governativi.
Diversi membri delle forze di sicurezza irachene, avrebbero cercato di lasciare Ramadi in abiti civili, per non essere individuati: si dirigevano verso lo stadio cittadino, protetto dalla Brigata Dorata (l’unità d’élite, l’unica in grado di combattere sul serio), che doveva fare da punto di raccolta per l’evacuazione aerea. Almeno una cinquantina di membri dell’esercito sono stati fatti prigionieri e qualcuno dice che sono già stati giustiziati. Un uomo dell’ISF (Iraqi Security Force) ha detto all’agenzia americana McClathy che la maggior parte della città è sotto il controllo dello Stato islamico, che ha perquisito varie abitazioni sequestrando i cellulari e intimando alle persone pronte a fuggire di non lasciare la zona ─ ci sarebbero state anche esecuzioni di combattenti e leader locali che avevano preso posizioni filo-governative.
Secondo l’analista esperto di Aymenn al Tamimi del Middle East Forum di Philadelfia, la conquista di Ramadi sarebbe la messa in pratica delle parole diffuse venerdì nell’audio di Baghdadi.
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