C’è una questione sostanziale che regola le dinamiche dello Stato Islamico – come ha sempre regolato le dinamiche dei regimi dispotici. La linfa vitale del Califfo è il successo, che genera euforia, propaganda, proseliti: se il Califfato vince e conquista, allora è forte; altrimenti va incontro a erosioni interne di vario genere, che hanno tutte più o meno come generatore comune la perdita di consistenza della sua aurea di invincibilità.
Le defezioni e le battute d’arresto sul campo di battaglia (Kobane non è l’unica, sebbene possa essere la più rappresentativa), fanno il paio con il dissenso interno, sia quello covato da coloro che vivono sotto il governo dispotico dell’IS (non da tutti, chiaro), sia tra chi quell’IS lo costituisce, vertici e vassalli, comandanti e semplici combattenti. Ed è vero che il brand si sta diffondendo nel mondo – ultimo passaggio di questo genere, il giuramento di fedeltà (baya) di Boko Haram in Nigeria – ma le tensioni che si stanno sviluppando tra combattenti stranieri e locali, i tentativi falliti di reclutamento sui cittadini, gli attacchi di guerriglia contro le posizioni dell’IS, sono un segnale che qualcosa comincia (si sottolinea “comincia”) a non andare. (Nota importante: la Libia e il Khorasan – AF/Pk – non rientrano nella categoria “esportazioni del brand”, in quanto sono frutto di una pensata e scrupolosa pianificazione che parte dall’Iraq e dalla Siria).
Gli attivisti che si trovano sul territorio, assicurano comunque (purtroppo), che nell’immediato l’IS non si troverà davanti la sfida per mantenere la morsa sulle aree della Siria orientale e dell’Iraq occidentale, che sono l’ossatura centrale del Califfato. Gli episodi di dissenso, si sono quasi sempre verificati ai margini di tale areale, dove non c’era controllo completo.
Tuttavia, secondo alcuni analisti (come Lina Khatib del Carnegie Middle East Center di Beirut, citata in un articolo del Washington Post), il problema principale per l’IS non è tanto esterno, quanto interno. Lo Stato Islamico sta fallendo nel presupposto centrale della sua ideologia: unire, sotto il Califfo, credenti di origini diverse. Cartina di tornasole di questa situazione, è il crescente attrito tra i combattenti locali e i foreign fighters. I primi sono risenti dal trattamento preferenziale riservato ai secondi – stipendi più alti e migliori condizioni di vitto e alloggio. Mentre i soldati siriani dello Stato Islamico vengono messi a difesa di avamposti rurali, molto vulnerabili agli attacchi aerei, gli “stranieri” vengono tenuti all’interno delle città, dove i raid hanno potere più limitato, per paura delle vittime civili. Alcuni attivisti hanno raccontato al WaPo, di essersi trovati davanti a discussioni e liti tra comandanti locali e stranieri, con i siriani che spesso si sono rifiutati di eseguire gli ordini degli altri.
A questo si unisce la disillusione di molti tra quelli che sono partiti da ogni parte del mondo per combattere il jihad e alla fine si accorgono di ritrovarsi soltanto sotto un regime pseudo nazista. A Raqqa, la capitale siriana dello Stato Islamico, il mese scorso sono stati trovati i corpi di una quarantina di asiatici (o almeno così sembravano i resti, secondo i testimoni): si trattava, probabilmente, di disertori scoperti, e dunque giustiziati, dagli uomini del Califfo. Il confine turco, permeabile al passaggio di jihadisti esteri in andata, sta diventando un sognato punto di transito per il ritorno per molti combattenti. Tanto che, le fonti locali, raccontano dell’imposizione di restrizioni sugli spostamenti dentro/fuori alle aree controllate dall’IS. E l’Osservatorio siriano per i diritti, con sede a Londra, segnala che nelle ultime settimane il Califfato avrebbe ordinato l’esecuzione pubblica di circa 120 dei propri membri – alcuni accusati di spionaggio, uno di fumare (gulp!) ma ipotesi concrete dicono che molti stavano cercando di fuggire.
C’è poi la questione (legata) delle sconfitte. La forza di propulsione dello Stato Islamico è stata la sua spettacolare (e spettacolarizzata) invulnerabilità – o meglio, è stata nel trasmettere questo. Ora ci sono le difficili battaglie del nord siriano (con i curdi che hanno ripreso Kobane) e del nord iracheno (dove sempre i curdi stanno erodendo le aree intorno a Mosul, e le perdite nel Sinjar, e più a sud a Diyala), e insieme la situazione di Tikrit (dove l’impegno iraniano al fianco di Baghdad, con le milizia sciite, sta raggiungendo il punto apicale, per lo meno finora). E le conquiste nella provincia orientale siriana di Homs, non hanno un valore mediatico e simbolico paragonabile alle conquiste della scorsa estate, o a perdere Kobane, o al rischio di perdere Tikrit.
Proprio Tikrit, potrebbe diventare un importante spartiacque. Ci sarà da vedere come i gruppi sciiti che stanno combattendo per riconquistarla, gestiranno la situazione della città natale di Saddam Hussein, piena di ex baathisti sunniti, che erano passati nei ranghi dell’IS. Se prevarrà il settarismo già noto delle milizie sciite, l’eventuale sconfitta potrebbe rivelarsi una vittoria propagandistica per il Califfo, che rivendicherebbe il malfatti sciiti (sponsorizzati dall’Iran e, nel messaggio, pure dalla Coalition US-led).
Le sconfitte principali dell’IS, sono arrivate da zone non sunnite: Kobane, Diyala, Sinjar, dove il Califfato non era riuscito a creare link radicati sul territorio. La presa su certe zone, è legata alla paura e alla povertà – l’offerta di soldi per combattere, è stata tristemente allettante per molti degli abitanti locali. A Tikrit ci sono ragioni ideologiche di collegamento – altrettante ragioni ideologiche di vendetta. Spezzare questo legame sarà un’operazione difficile e delicata: la propaganda del Califfato è stata spesso abile nel silenziare le sconfitte con messaggi mediatici urlati (le esecuzioni pubbliche, per esempio). A Tikrit il settarismo sciita potrebbe dare nuova spinta a un Baghdadi che momentaneamente sembra un po’ “fiaccato”.
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