Magazine Lavoro

Lo Statuto, 40 anni dopo

Da Brunougolini

Mentre si ricordano i 40 anni dalla nascita di quello Statuto dei lavoratori che oggi il centrodestra vorrebbe riscrivere, capovolgendone il significato, è bene ricordare come erano allora i luoghi di lavoro. Erano officine dove era proibito parlare di politica o raccogliere adesioni al sindacato e dove si creavano reparti confino per chi sgarrava. I lavoratori non potevano intervenire sui problemi della sicurezza e potevano essere licenziati “ad nutum” ovverosia con un cenno della mano. Insomma luoghi dove nella sostanza era proibito l’intervento del sindacato per cambiare le condizioni di lavoro.E come si arriva allo Statuto? Tra i primi a parlarne (vedi lo speciale del Primo Maggio di Rassegna Sindacale, curato da Enrico Galantini) è Giuseppe Di Vittorio al Congresso di Napoli della Cgil (1952). Con lo slogan “la Costituzione nelle fabbriche” si vogliono tradurre alcuni principi costituzionali in norme capaci di garantirne l’applicazione. “Il lavoratore” – dichiara Di Vittorio - “è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa, e vuole che questi diritti siano rispettati da tutti e, in primo luogo dal padrone … perciò sottoponiamo al Congresso un progetto di Statuto che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (…) per poter discutere con esse e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne”. Nel frattempo alcune anticipazioni, come ricorda un ex segretario della Cgil, Antonio Pizzinato (su “Libera età”, periodico dello Spi-Cgil) sono promosse dal Pci e dal Psi (ma anche dalla Dc). Attraverso leggi come quella che pone fine al fatto che se una donna rimane incinta è licenziata (così come è licenziata se si sposa). Un’altra legge interviene sul licenziamento “ad nutum” e introduce la “giusta causa”. Sono premesse del futuro Statuto. Siamo all’epoca del centrosinistra e c’è un uomo. Giacomo Brodolini, già dirigente della Cgil, ora ministro socialista che fa propria questa missione. Un disegno di legge è presentato al Senato dal Consiglio dei ministri, il 24 giugno 1969. L’obiettivo di fondo è “creare un clima di rispetto della dignità e della libertà umana”. C’è un’ampia discussione e c’è chi vorrebbe inserire anche il riconoscimento di organizzazioni partitiche nei luoghi di lavoro. Non passa e così Pci, sinistra indipendente e Psiup, pur riconoscendo le importanti e positive modifiche introdotte si astengono. Un atteggiamento critico assume anche la Cisl di Bruno Storti, coerente con una cultura antilegislativa in materia di lavoro. Giacomo Brodolini non riesce a vedere però la vera e propria nascita della sua creatura. Il cancro lo porta via quando ha solo 48 anni. Qualche giorno prima ha voluto andare ad Avola a ricordare i due braccianti uccisi dalla polizia. Il ministro (non del lavoro ma dei lavoratori, come ama essere chiamato) lascia il compito di definire il dispositivo, anche attraverso intelligenti mediazioni, al giovane studioso capo della commissione di esperti che ha voluto accanto, Gino Giugni. Così il varo avviene (nuovo ministro del Lavoro è Carlo Donat Cattin, esponente di Forze Nuove nella Dc e già dirigente Cisl a Torino) il 20 maggio del 1970 e lo Statuto dei lavoratori diventa legge. E’ il coronamento di tante battaglie e soprattutto di lotte operaie che hanno accompagnato, passo dopo passo, l’elaborazione dei nuovi diritti. Così nelle assemblee che procedono, fabbrica per fabbrica, alla nomina dei “delegati di gruppo omogeneo”, nelle miriade di accordi aziendali, nell’entrata del sindacato con i dirigenti sindacali, letteralmente trascinati dagli operai all’interno dei capannoni. E’ quella realtà esplosiva e costruttiva che fa partorire lo Statuto.Oggi si vuole tornare indietro. La retromarcia è stata innestata dal centrodestra. Dichiara il nuovo successore di  Brodolini, Maurizio Sacconi, parlando ai plaudenti industriali a Parma: "Entro maggio presenterò un testo nuovo". La nuova legge, spiega, servirà a "completare la liberazione dall'oppressione burocratica, da tutto quello che genera conflitto e dall'incompetenza che minaccia l'occupabilità". Lo scopo è "battere il nichilismo delle generazioni degli anni '70 che sono entrate nei mestieri dell'educazione, della magistratura e dell'editoria non tanto per occupare, come diceva Gramsci, le casematte del potere, quanto, come si dice a Roma, per infrattarsi, perché è sempre meglio che lavorare".Parole di disprezzo verso esperienze che hanno fatto grande, forte e unitario il sindacato e più civile il Paese. Certo lo Statuto dimostra la sua età, avrebbe bisogno di aggiustamenti, ma del tutto diversi da quelli prospettati dal centrodestra. Oggi i Co.Co.Co. i lavoratori a progetto, gli stagisti, quelli che pullulano nelle fabbriche con le casacche degli appalti, accanto ai loro compagni “normali”, non sanno che cosa sia lo Statuto. Sarebbe necessaria un’estensione dei diritti non una loro riduzione, mettendo i presunti “garantiti” contro le nuove leve di un lavoro precario. E senza far assurgere a ruolo di “arbitro”, nei conflitti sociali, un tecnocrate del lavoro chiamato a giudicare non in nome di leggi e contratti, ma in nome di un suo personale concetto di equità. Vien da pensare a come sarebbe importante una proposta alternativa, capace di parlare a tutto il mondo del lavoro. Una risposta convincente, uno Statuto rinnovato che sfidi chi solo vuol dividere.  

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