Il principale problema di tanta letteratura di oggi è che molti autori, anziché narrare una storia sforzandosi di dire il necessario, cercano di narrare la storia facendo in modo che quella storia ricordi, per clima e per maniera, un’altra storia, o meglio, un altro libro, meglio se un libro intensamente letterario. Molti autori cioè non si concentrano sui fatti, ma sullo stile, e non mi riferisco solo a uno stile di scrittura, ossia all’uso di una particolare tecnica, ma a uno stile di storia. Raccontano storie che a loro avviso sono dotate di una particolare musica letteraria, che per una serie di cliché suppongono adatte a essere impaginate in un certo modo, con un titolo affettato, confezionate per un pubblico che si aspetta esattamente quel tipo di storia raccontata in quel modo. Si tratta di preferire una via lunga e contorta laddove è a disposizione una via molto più breve. La via lunga consiste nel dover filtrare la storia attraverso l’imitazione, la via breve è versare la storia nel recipiente della pagina bianca lasciando che a lavorare sia solo la propria sensibilità artistica.
Molto spesso le persone si comportano come altre persone di cui sanno poco e niente, e che però nella loro percezione rappresentano la cosiddetta maggioranza, per il solo fatto che pensano che comportandosi in quel modo possano essere meglio accettati in un certo contesto sociale. Nel Grande Nulla dove lavoro io, per esempio, mi rifiuto di adeguarmi allo stile imperante, che è uno stile fatto di saluti forzatamente allegri, di confidenze svenevoli, di socialità da corridoio. Nel rifiutarmi queste cose vengo spesso tacciato di essere una creatura ombrosa, suscettibile, schiva. Spesso mi è stato rimproverato di non parlare quasi mai, e le persone che mi hanno rimproverato di questo sono generalmente persone con cui non ho alcun rapporto lavorativo né di amicizia, sono cioè dei perfetti sconosciuti che tuttavia, per qualche misterioso motivo, si sentono in diritto di sentenziare sul mio umore e sul mio comportamento. Tempo fa uno di questi sconosciuti mi ha fermato sulle scale e mi ha detto: “Ho letto un tuo articolo su internet. Quindi tu scrivi?” E io: “Suppongo di sì”. Al che lui: “Ah, non l’avrei mai detto”. “Perché?” “Perché… non lo so, ti vedo qua da tanti anni e non ti ho mai sentito parlare”. Il fatto che quel tizio non mi avesse mai sentito parlare, o più probabilmente che non mi avesse mai visto partecipare alle estenuanti riunioni conviviali intorno al distributore di caffè di cui lui al contrario è un assiduo frequentatore, lo avevano persuaso che non fossi in grado di scrivere un articolo né che fossi capace di avere una vita socialmente accettabile. Il fatto è che quella persona tendeva a riferire il mio comportamento al comportamento tenuto dalla maggioranza delle persone nel Grande Nulla, lo comparava al cliché, nel giudicarmi il suo cervello tendeva a fare un giro lunghissimo e contorto di connessioni che lo portavano a una conclusione tanto rudimentale quanto errata.
Sono convinto che la questione dello stile non sia eminentemente artistica, la questione dello stile è umana. I meccanismi attraverso i quali si raggiunge un mediocre risultato letterario o si formula un giudizio errato su una persona sono molto simili e derivano da un fraintendimento del concetto di stile. Lo stile non è un orpello, non è un lasciapassare che consente di raggiungere l’approvazione dei nostri simili. Lo stile, in un caso e nell’altro, è la via più libera e breve che riusciamo a elaborare per risolvere un problema.