Capita che qualcuno mi chieda: che cosa mi consiglieresti per cominciare ad ascoltare il jazz?
E io in genere rispondo: dipende.
Il jazz è una galassia, per non dire un intero universo, quindi il punto è trovare la giusta porta d’ingresso, da dove cominciare ad esplorarlo.
Sostanzialmente, tutto dipende dalla persona, dai suoi gusti e dal suo retroterra culturale. A uno che ascolta i Black Sabbath, non consiglierei Louis Armstrong (anche se non è detto: conosco una persona, fanatica di black metal, che adora Louis), mentre un appassionato di Battisti non lo farei cominciare da Anthony Braxton.
Io, che ero sempre stato attratto dal jazz, me ne sono davvero innamorato quando ho scoperto Bill Evans. E ci credo: ascoltavo la musica classica, adoravo Debussy, Ravel, che guardacaso sono proprio le sue ascendenze musicali.
Ci pensavo di recente, mentre ascoltavo “Infanticide”, l’ultimo disco dei Sudoku Killer di Caterina Palazzi, uscito a gennaio di quest’anno.
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Io ho un problema: per professione, ascolto tanti dischi, perlopiù di jazz. Alcuni sono brutti, ma devo ammettere che la maggior parte sono di buono o ottimo livello.
Però il problema è questo: raramente mi capita un disco che fermi la mia attenzione. Molto di ciò che ascolto mi piace, a volte anche tanto, ma dopo l’ascolto va ad archiviarsi da solo fra il già sentito.
Ecco: quando ascolto Caterina Palazzi, invece, mi si rizzano subito le orecchie.
Innanzi tutto, Caterina Palazzi suona il contrabbasso, e già questo non è poi tanto frequente, perché ancor oggi, nel jazz, le donne sono in stragrande maggioranza o cantanti, o pianiste.
Ma soprattutto la musica di Caterina Palazzi si propone subito come totalmente disallineata rispetto a quello che nel jazz si chiama il “mainstream”. Vale a dire, la riproposizione (spesso squisita, ma sempre riproposizione) di uno stile elaborato intorno agli anni Cinquanta, con qualche propaggine nei primi anni Sessanta.
Caterina Palazzi chiama il disco “Infanticide”, con un esplicito richiamo ai Nirvana. E il richiamo non si ferma al titolo. Ricordo che la intervistai qualche anno fa (http://www.jazzit.it/magazine-numero.html?ID_magazine=51), e tra le sue fonti d’ispirazione mi citò il punk, il grunge, il noise e la musica classica.
Già lì mi dissi: qui siamo davanti a qualcuno che ragiona. Soprattutto perché buona parte dei fan e dei critici di jazz, al solo sentir nominare il punk e il noise, storce il naso come davanti a una porzione di formaggio andato a male.
Ma il punto non è solo quello.
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Il punto è che Caterina Palazzi scrive musica originale.
Lo so, la maggior parte dei jazzisti scrive musica “originale”, ma il problema è lo stesso di cui sopra: finito di ascoltare un brano “originale”, si fatica a distinguerlo dai millemila brani simili ascoltati in altri millemila dischi. Non è una bella sensazione: viene in mente il famoso aforisma di Frank Zappa, secondo il quale “il jazz non è morto, però manda uno strano odore”.
Ora, io adoro Louis Armstrong, Duke Ellington, Charlie Parker, Sonny Rollins, John Coltrane, Miles Davis, Bill Evans, Ornette Coleman. Eccetera eccetera eccetera. Adoro un po’ meno i loro cloni, per quanto siano spesso di una bravura impressionante.
Nel caso di Caterina Palazzi, questo problema non mi si pone. La sua musica è, sì, “originale”, perché dimostra un’impronta personale e un pensiero compositivo lucido. Sa che cosa sta facendo, e si sente. E fa le cose sue, non la carta carbone di qualcun altro.
Fa, insomma, la musica che ci si aspetta faccia una musicista nata nel 1982. Con in più il riferimento al jazz, sì, ma a quello di John Zorn, di Tim Berne, di Henry Threadgill (chi frequenta un po’ il jazz, sa di che cosa parlo, chi no, si informi).
Quella musica, alle orecchie di qualcuno, non si chiama “jazz”? E vabbè, pazienza.
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Fatemi concludere con una piccola nota di orgoglio campanilistico: Caterina Palazzi è romana, ma “Incesticide” è prodotto dalla Auand di Marco Valente. Un’etichetta nata in Puglia, con sede in Puglia, diretta da un pugliese, Marco Valente, che da più di dieci anni produce alcune delle cose più interessanti che si sentono in giro nella galassia del jazz.
“Incesticide” è il tipo di disco che consiglierei a chi pensa che il jazz è noioso e non si capisce.
Anche perché sulla seconda affermazione non sono affatto d’accordo, ma sulla prima, purtroppo (a volte) sì.
Per finire: un piccolo saggio del tipo di musica che si può trovare nel disco.
Buon ascolto.
Caterina Palazzi, “Incesticide” (Auand Records, 2015)
Caterina Palazzi (contrabbasso); Antonio Raia (sassofono); Giacomo Ancillotto (chitarra); Maurizio Chiavaro (batteria)
di Sergio Pasquandrea