«Ora senta un po, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.»
Sebbene l’interpretazione di questo passo de “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello vada in un’altra direzione, mi è tornata alla mente proprio l’altro giorno, mentre leggevo un romanzo di qualche anno fa (non citerò titolo né autore, ma si tratta di un pezzo grosso). Leggevo, appunto, e la storia scorreva via abbastanza piacevole, forse solo un tantino prolissa, quando mi sono imbattuto in un madornale errore sfuggito all’editing. Niente di eccezionale, a ben pensarci: si trattava della ripetizione dello stesso avverbio due volte nella stessa frase. Eppure è bastata quella svista a catapultarmi fuori dalla storia e ho dovuto fare un profondo sforzo di concentrazione per rientrarvi.
Non fraintendetemi. Non sto facendo il pedante che, ora che ha pubblicato un paio di romanzi, va a cercare i peli nell’uovo. Al contrario, la riflessione che sto facendo riguarda in prima persona me e la mia produzione. D’altronde, la passione per la lettura mi ha spinto a cimentarmi con la scrittura e sarà sempre la passione per la lettura a fornirmi gli strumenti per migliorarmi. Talora per emulazione, talora per “contrapposizione”.
Ebbene, tornando a quel refuso, ho ripensato allo strappo nel cielo di carta di Pirandelliana memoria. Perché un romanzo di fiction altro non è se non un teatrino delle marionette costruito con le parole dello scrittore, che è allo stesso tempo architetto delle scenografie e autore della sceneggiatura e dei dialoghi. Il bravo scrittore, quello che vorrei diventare un giorno, è colui che, oltre a imbastire la scena, la manovra, muovendo i fili dei suoi personaggi senza far riconoscere la sua presenza al pubblico.
I casi più eclatanti in cui questo non avviene, casi di cui ho avuto qualche esperienza sia diretta e personale – rileggendo alcuni dei miei primi racconti, ad esempio – che indiretta – soprattutto partecipando al Torneo IoScrittore – riguardano veri e propri paragrafi in cui l’autore interviene con giudizi personali riferiti a quanto sta raccontando. Più che di uno strappo nel cielo, si tratta di un radicale cambio di prospettiva: l’impalcatura stessa del teatrino crolla ed eccolo lì, il burattinaio maldestro.
In altri casi, e parlo dei grandi autori (perché in fondo anche nei libri dei migliori può scappare un refuso), basta una ripetizione, un verbo mancante, una virgola al posto sbagliato, un nome errato a generare nel lettore una reazione di sicuro meno violenta, ma comunque deviante. Come nel caso che citavo all’inizio.
Perché la magia della lettura sta nel lasciarsi trascinare in un mondo parallelo che, per le ore che dedichiamo al libro, diventa unico, concreto e totalizzante. Molto più di quanto accade con un film, che ci mostra solo quel che inquadra la telecamera e che deve conquistare la nostra attenzione combattendo contro gli elementi di disturbo intorno al televisore. Con un libro, la storia non è davanti ai nostri occhi, ma prende forma e consistenza nella nostra mente, a 360 gradi, e poi ci ingloba al suo interno.
E sono proprio quelle piccole o grandi sviste di autori ed editori – e sempre più comprendo l’importanza di ripetute riletture e di un attento editing delle opere – che attentano a questa magia, aprendo falle nel mondo che ci costruiamo e lasciando entrare spiragli di realtà. Lasciandoci spiazzati come la marionetta di Oreste.
Niente di grave, beninteso, ci sono problemi peggiori che affliggono l’umanità. Ma, almeno qui, mi piace poter parlare anche di questioni più “filosofiche”.