Lo studente dissidente

Creato il 29 novembre 2010 da Cobain86

Gelmini

2 giorni di occupazione a Reggio Emilia per protestare contro una riforma ingiusta. Ore perse, lezioni ed appelli saltati, rigurgiti sessantottini che riafforano prepotentemente come in un pericoloso flashback. Cosa stiamo perdendo? E, soprattutto, cosa abbiamo imparato? Buona lettura!

Era dai tempi del 1968 che non si vedeva un fervore così acceso sui banchi universitari. La cosa ironica (se così possiamo dire) è l’accordo e la collaborazione della Facoltà, che appoggia gli studenti in questa lotta contro l’ignoranza e la privatizzazione della cultura.

Senza ricadere in facili discorsi marxisti legati alla lotta di classe, il dado è tratto: tagli continui alla ricerca, alla scuola si tradurranno in tasse più alte e allo sbarco (direttamente dagli Stati Uniti) del celeberrimo prestito d’onore.
Tranquilli, qui la mafia non c’entra: la banca ti paga le tasse universitarie e tu li restituirai ratealmente appena troverai un lavoro, condizione in Italia sempre più ipotetica.

Così, ai nostri giovani, oltre a togliere il sogno della casa neghiamo anche la possibilità di ricevere una cultura decente (perchè in Italia, checchè se ne dica, la scuola pubblica e l’università funziona: il problema è che ha pochissimi fondi per sostentarsi).
Soluzione? Scuole private, cultura privata, insegnanti privati: vanno avanti i raccomandati (il privato può assumere chi gli pare, anche se non ha i meriti richiesti), le rette lievitano come pandori e ci ritroviamo in mano ad esperti imprenditori della cultura.

La domanda, silenziosa e sibillina, però s’insinua: ma di quale cultura stiamo parlando? Di quella classica, lasciata da greci e romani. Dell’attualità del dopoguerra, del boom economico. E la generazione di nuova cultura a che punto è?

Morto, a quanto sembra. I ricercatori in Italia non trovano fondi e si rivolgono a Paesi stranieri per esser finanziati (perchè da altre parti, con tutti i difetti imputabili alle varie Nazioni, sanno che il vero potere del domani è il sapere e i brevetti), qui da noi ricercare è anti-economico.

Quindi continuiamo a puntare sui nostri prodotti tipici (Parmigiano, Lambrusco, prosciutti e via elencando), se magna e se beve però ormai la festa è finita: il tessile risente della crisi pressante indotta dalla manifattura a costo pressochè azzerato dei cinesi, mancano le basi per creare un nuovo vantaggio competitivo che faccia rinascere questo sacrosanto PIL.

Allo stato attuale delle cose gli indiani si stanno distinguendo nelle discipline sicentifiche e matematiche, vengono assunti da Google e Microsoft, producono tantissimi film nella loro Bollywood, hanno dimostrato una volontà di riscatto e rinascita invidiabile. I cinesi hanno il culto del lavoro e, non avendo la domenica festiva, lavorano 7 giorni su 7 senza batter ciglio.

Non potendo competere sul piano manifatturiero (la nostra legislazione prevede vari diritti costosi a tutela dei lavoratori) dobbiamo inventare, creare, stupire: usiamo le meningi per essere noi stessi il prossimo miracolo.

Il biomedicale, le nano-tecnologie, le energie alternative: queste sono le grandi (ed importanti) sfide del domani, una competizione serrata che porterà a sviluppare soluzioni per ottimizzare le risorse ed evitare di distruggere il Pianeta anzitempo. Servono menti fresche, appena laureate, ingegnose e coraggiose quanto basta per azzardare nei nuovi campi delle varie scienze e avere l’intuizione geniale.

Ma tutto questo non capita ogni giorno, servono tempo, soldi e passione (la vera linfa che funge da propulsore per ogni ricercatore all’innovazione). Ah, quasi scordavo: noi siamo il Paese che taglia sulla ricerca.

Noi abbiamo il ministro Gelmini che propone riforme senza avere i fondi necessari, che lascia a casa tantissime persone preparate, che taglia sul FUS (Fondo per lo spettacolo), che propaganda una cultura dell’ignoranza anzichè una cultura basata sulla meritocrazia e sulla preparazione accademica. Questo si chiama innovare, sì sì.

Un Paese che taglia sulla cultura si scava la fossa da solo, crea le basi per sprofondare in un abisso di arretratezza che, al confronto, i nostri antenati medievali erano progressisti.
É un Paese che fa economie dove non dovrebbe, che latita sull’evasione fiscale (essendo così diffusa per uno incastrato altri 100 se la ridono), che concede appannaggi, auto blu e stipendi ai politici tra i più alti in Europa.

In questo Paese solo i calciatori guadagnano più dei politici (e tra parentesi, i secondi non devono nemmeno correre per 90 minuti o fare gli allenamenti settimanali: hanno il vitalizio fino alla loro dipartita) e non si trovano fondi per il bene più prezioso, quello che contraddistingue il nostro Bel Paese nel mondo: la cultura.

L’UNESCO ha riconosciuto all’Italia tantissimi patrimoni, segno che la nostra terra è feconda di opere di grandi artisti che ancora oggi richiamano turisti da tutto il mondo. Epure, escludendo i monumenti principali, altri sono abbandonati a sè stessi, i musei ricevono pochi fondi, i privati non vengono incentivati fiscalmente ad investire in questo settore (come invece accade negli USA).

Siamo sull’orlo del baratro? Sì. Possiamo ancora fare qualcosa? Certamente. Questa protesta diffusa che ha coinvolto anche i maggiori monumenti italiani (Torre di Pisa e Colosseo) servirà? Possiamo solo sperare.

La protesta a cui assistiamo oggi si fonda su basi solide e su un consenso condiviso, cosa che nel ’68 non accadeva con la forte repressione delle forze armate verso gli studenti. Oggi c’è una maggiore coscienza collettiva, c’è Internet (e il caso WikiLeaks è la perfetta dimostrazione della democratizzazione della verità), c’è Youtube e i suoi video: speriamo, continuiamo a sperare in un futuro migliore.

Che possa vincere il buonsenso, per una volta, sugli interessi puramente politici/economici che governano questo Paese, senza tener conto che l’abolizione della cultura è la perdita della nostra identità.
Confidiamo in una nemesi culturale che possa salvarci tutti.

Marco


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