Per quanto incerta, ondivaga e diciamo pure sgangherata, sembra che mai come oggi la politica estera di Stati Uniti ed Europa sia stata così concorde. Lo è però per un fattore di debolezza oggettiva (ed incolpevole). Viene comunque smentita la diffusa convinzione che col crollo del comunismo nel nuovo mondo multipolare, che si profilava all’orizzonte, Europa e Stati Uniti sarebbero andati ciascuno per la sua strada. Nel mio piccolo contestai questa predizione già nel 2007, parlando provocatoriamente di inevitabile alleanza tra Stati Uniti ed Europa. La mia convinzione era che proprio in un mondo caratterizzato da potenze emergenti di stazza continentale (ed alcune di consistenza demografica perfino sgomentevole), nelle quali la crescita economica si sarebbe accompagnata fatalmente a richieste crescenti di libertà individuale, la tentazione di risolvere gli squilibri interni attraverso la politica di potenza (una sorta di proiezione su scala mondiale, mutatis mutandis, dei traumi vissuti nella vecchia Europa all’apparire del novecento dopo la grande corsa del XIX secolo), questa tentazione, dicevo, sarebbe stato il vero pericolo globale (più ancora di un Islam che si sta fragorosamente suicidando) che il vecchio Occidente avrebbe dovuto affrontare, tanto da spingerlo, volente o nolente, a fare quadrato. Tra queste potenze citavo anche la Russia (benché non la considerassi, e non la consideri affatto, la più pericolosa): «La Russia “semidemocratica e neozarista”», scrivevo, «ha tutte le intenzioni – peraltro legittime – di giocare un ruolo a tutto campo e autonomo nella scena mondiale.» Tale sbagliata predizione sulla rottura dell’asse occidentale era figlia del realismo politico, che riesce ad essere la più ottusa delle dottrine politiche quando manca di temperanza. In fin dei conti l’ultra-realista politico ha una visione meramente orizzontale, quantitativa, spaziale della geopolitica. Eccolo lì a compulsare le sue tre mappe del mondo: quella geografica, che illustra la posizione e la consistenza territoriale dei singoli paesi; quella demografica, che disegni scenari molto diversi; e quella economica, che ne disegna di più diversi ancora. Su questo sfondo composito fa agire l’uomo hobbesiano, in tutta la sua astrattezza deterministica.
Vi è infatti anche una dimensione verticale, culturale, temporale della geopolitica. Il 2014 in Europa equivale al 2014 in India solo per la statistica e per la superficie delle cose, non certo per i movimenti che agitano gli strati profondi della società. Nello scritto sopra richiamato identificavo, per mera comodità dialettica, nella Zivilisation il fattore dinamico, libertario, universalista, progressivo che vivifica la società: la sua anima (la perversione rivoluzionaria confonde l’anima col corpo); e nella Kultur il fattore statico, identitario, conservatore che ne attesta l’esistenza: il suo corpo (la perversione reazionaria confonde il corpo con l’anima). In fin dei conti anche le nazioni sono fatte di corpo e di anima: un paese che si chiude in se stesso, nel suo corpo, prepara il suo sarcofago e finisce logicamente nella polvere, non prima magari di aver eliminato qualche corpo estraneo; un paese che corre dietro ai soli bisogni dello spirito finisce invece per rinnegare il suo corpo, e non è un caso che gli auto-genocidi siano una specialità giacobina. Un paese che trova un equilibrio tra le istanze democratiche e civilizzatrici e le resistenze culturali e quelle delle classi dominanti è un paese che trova il suo passo, è un paese in continuo movimento, ma senza strappi. Un paese che perde questo equilibrio diventa instabile, aggressivo, pericoloso. La Francia rivoluzionaria non segnava forse il trionfo delle idee inglesi? Eppure essa divenne il nemico numero uno della Gran Bretagna. La Russia rivoluzionaria non segnava forse il trionfo dell’occidentalismo? Eppure essa divenne il nemico numero uno dell’Occidente.
Ciò detto, facciamoci la seguente domanda: la Russia di Putin rappresenta forse una patologia o è un paese che ha trovato un suo accettabile equilibrio? La mia risposta è che la Russia putiniana non rappresenta affatto una patologia. Posso capire il nervosismo di baltici o polacchi, ma pensare che Putin abbia mire su di loro non sta né in cielo né in terra. In realtà la stabilità ritrovata dalla Russia putiniana rappresentava la situazione ideale per l’Occidente: i paesi europei propriamente detti dell’ex Patto di Varsavia o dell’ex Unione Sovietica avevano ritrovato la propria casa, ed erano entrati nella Nato; i paesi non propriamente europei o per niente europei, a vario grado russificati, che facevano parte dell’ex Unione Sovietica, avevano trovato o ritrovato la loro indipendenza e costituivano una vastissima zona cuscinetto tra la Russia e l’Europa e tra la Russia e l’Asia; ciò consentiva all’Occidente di concentrare le proprie forze nella lotta al radicalismo islamico e di monitorare attentamente, e con agio, la crescita di potenze asiatiche semplicemente ciclopiche dal punto di vista demografico. In questo quadro la Russia, anche quella putiniana, era già, almeno in parte, e sicuramente in prospettiva, Occidente.
Invece, stoltamente, si scelse di risvegliare l’orso dal letargo. Quale necessità avesse l’Occidente di patrocinare l’entrata di Georgia e Ucraina nella Nato è un mistero. Non capire poi quale tasto delicato si andasse a toccare nel cercare di strappare l’Ucraina alla storia russa per collocarla artificialmente in quella europea è un mistero ancora più grande. Non un rozzo fanatico qualsiasi, ma un “reazionario” (rigorosamente tra virgolette) come Solzhenitsyn pensava che Russi, Bielorussi e Ucraini costituissero un solo popolo che l’invasione mongola e la colonizzazione polacca avevano separato. Per lo scrittore russo, sotto il dominio lituano e polacco «i Russi Bianchi [Bielorussi] e i Piccoli Russi [Ucraini] si consideravano Russi e combattevano contro la polonizzazione e il cattolicesimo». Eppure Solzhenitsyn non era affatto un imperialista: auspicava anzi la la pronta separazione dalla Russia delle altre nazioni che furono sotto il giogo sovietico, quelle baltiche, quelle caucasiche, quelle centro-asiatiche. Bisognava inoltre tenere in debito conto che la nuova Ucraina indipendente era nei fatti una grande Ucraina che aveva poco a che fare con l’Ucraina storica, un paese nel quale ad una popolazione in parte culturalmente russificata si aggiungeva una popolazione genuinamente russa; che in vent’anni d’indipendenza il processo di ucrainizzazione del paese, nonostante le mene moscovite, aveva proceduto con passo spedito nei media e nelle scuole; e che tutto ciò costituiva un crescente motivo di tensione all’interno del paese. Ciononostante, l’Occidente scelse non solo di appoggiare ma di sponsorizzare una linea rivoluzionaria fondata sul sentimento anti-russo: che il paese si spaccasse era inevitabile.
Un grande, inutile errore. Anche per il popolo ucraino. La cui spiegazione è questa: che con il crollo dell’Impero Sovietico, con la sparizione del nemico numero uno dell’Occidente, e insieme del pericolo che esso rappresentava, l’idea dell’Occidente è ridiventata appetibile a sinistra e tra i liberal, i quali se ne sono impadroniti declinandola secondo le regole della grammatica laico-progressista. Non è forse successo qualcosa di simile in Italia con la conversione della sinistra alla fede nel simbolo prima tanto disprezzato (nonché sospetto) del tricolore, al solo scopo di porlo al servizio del patriottismo costituzionale? Puntualmente sfoderata quando si tratta di metterla al servizio dell’Onu, o di patrocinare rivoluzioni frivole e insensate contro ragionevolissimi despoti alla camomilla come Mubarak, e puntualmente rinfoderata quando si tratta di far fronte all’Islam puro e duro, questa ideologia democratica non poteva non riconoscere in Putin il diavolo per eccellenza, e nella sua Russia quell’Impero del Male che al tempo del comunismo, nonostante l’immane carneficina e gli arcipelaghi Gulag, i suoi attuali interpreti non vollero mai riconoscere.
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