Ritornare a Pier Vittorio Tondelli passando da John Fante dà il gusto di una riscoperta, e mi convince sempre più che esista un momento preciso per ogni lettura, in cui quel testo si incastra perfettamente nella nostra vita, sulla nostra sensibilità, a lasciarci qualcosa dentro. In fondo è la stessa cosa che mi è successa con PVT: consigliato da tempo, sempre preso in mano ogni volta che entravo nella mia libreria preferita e sempre riposto nello scaffale: mancava qualcosa. Poi, un giorno, Altri libertini me lo ritrovo in mano senza nemmeno pensarci, pago e da lì è iniziata una frequentazione con le pagine di Tondelli che continua ancora oggi, arricchendosi nel tempo di riletture e incontri.
La stessa cosa mi è successa con Fante, nonostante avessi anche letto le pagine di Tondelli – che scrisse l’introduzione all’edizione italiana dei Sogni di Bunker Hill, ultimo romanzo dello scrittore di origine abruzzese – e nonostante in tanti me lo consigliassero, spesso e con convinzione.
Così sono dovuto arrivare al 2011 per rimediare a questa mia ennesima mancanza e nell’ultimo mese ho divorato la quadrilogia imperfetta che racconta le storie di Arturo Bandini. E ho provato mentre lo leggevo quell’odio e quell’amore di cui parla Tondelli, la cui origine, secondo l’autore correggese, sta nel pragmatismo e nel realismo di uno scrittore che “non ha mai creduto fino in fondo alla propria scrittura, al punto da privarsene per decenni; così come non ha mai, realmente, creduto in Dio.”
E seguendo i passi di Bandini si entra in un’America che non c’è più, una terra da conquistare su cui Fante-Bandini getta uno sguardo già più che disilluso, polveroso ma sempre vitale, ironico, dissacrante. Soprattutto nella rappresentazione della macchina hollywoodiana nei Sogni di Bunker Hill, una macchina che con il passare degli anni è diventata sempre più pervasiva, non solo ingoiando (e spesso distruggendo) le vite degli scrittori come ci racconta Fante (e non solo lui), ma forse anche uniformando l’immaginario e l’estetica di più generazioni.
Tondelli non è l’unica traccia che ho ritrovato in Fante (certo: una traccia a posteriori, ma comunque significativa): in Arturo Bandini, nel suo muoversi attraverso Los Angeles alla ricerca di vita e scrittura c’è tutta la Fame di Knut Hamsun, e quell’ansia del trascinarsi in prima persona per le strade di Christiania. Fante non lo nasconde, anzi lo cita apertamente, fino alla chiusura del quarto libro della saga in cui la citazione si fa invocazione:
Per favore, Dio, per favore, Knut Hamsun, non abbandonatemi adesso.
Adesso Fante sta nella mia libreria tra questi affini, sempre pronto a saltare fuori dallo scaffale e farsi rileggere, per stupire ancora con quella sua onestà sfacciata e pungente. E, come scrive Emanuele Trevi nell’introduzione al volume Le storie di Arturo Bandini, “c’è sempre un altro libro da scrivere, un altro impegno da non mantenere, un altro buon proposito da tradire”.