Anti-economia ed antipolitica - 4
- Sulla riformulazione dell'emancipazione sociale dopo la fine del "marxismo" -
di Robert Kurz
4. La cessazione riguardo alla produzione di merci
Com'è possibile, allora, una "economia naturale microelettronica" come forma embrionale? La difficoltà consiste nel fatto che la forma capitalista della divisione funzionale della società, ad esempio la struttura capitalistica del valore d'uso, non può essere assimilata senza alterazioni in una riproduzione emancipatrice. Il personale di un'impresa che, ad esempio, produce navi, non può emanciparsi, così com'è, dalla forma del valore sociale. Dal momento che non consumano navi e non possono soddisfare le proprie necessità con i mezzi di produzione specifici della loro impresa, e dal momento che, allo stesso tempo, la produzione specifica della loro impresa si trova incorporata in un sistema di divisione del lavoro capitalista, essi rimangono dipendenti dalla produzione di merci, con tutte lo conseguenze sociali già esposte.
Questo non è alterato in niente dal fatto che un movimento di insieme della società, che ha base in tutte le imprese, voglia, per esempio, a partire da una crisi della riproduzione capitalistica, superare immediatamente, per tutta la società, la forma merce. I "consigli" di tutte le imprese capitaliste non rappresenterebbero soltanto l'insieme della struttura capitalistica del valore d'uso, ma anche tutto il sistema di divisioni funzionali sempre più plasmato dall'astrazione del valore, dall'industria delle armi all'imprese di trasporto. Una gran parte di queste imprese, a causa di insensatezza o di pubblica minaccia, dovrebbe essere immediatamente disattivata, e il rimanente dovrebbe essere completamente rimodellato ed inserito in nuove relazioni.
A tutto questo si aggiunge il fatto che,, in un sistema produttore di merci, praticamente non c'è una conoscenza sociale della rete complessiva della riproduzione, su un piano materiale e sensibile. L'insieme degli aggregati sociali si manifesta soltanto nella forma di grandezze astratte liquide in termini monetari (flusso di reddito, di spesa, ecc.), così come sono rappresentate dal "calcolo politico-economico totale", mentre le imprese isolate, sotto l'aspetto materiale, conoscono solo il loro propri clienti e fornitori, ma non tutto il processo materiale collegato in rete, del quali essi sono una parte. Vi è, pertanto, una grottesca ignoranza da parte della società capitalista e dei suoi membri circa l'aggregato materiale del suo stesso contesto di vita, che gli è tanto estraneo quanto un continente inesplorato. Perciò, quando alcuni giornalisti hanno ricostruito il fantastico pellegrinaggio per l'Europa di un prosaico barattolo di yogurt, ed il conseguente dispendio insensato di risorse, le ricerche hanno portato ad un risultato sorprendente. Questo è solo un esempio diventato famoso; lo stesso problema si ripresenta riguardo tutte le cose prodotte, dalla turbina a gas fino allo spillo.
Un sistema sociale rappresentativo composto da "consigli" di imprese non dovrebbe lottare soltanto contro la furia degli interessi particolari d'impresa o i suoi succedanei, ma anche contro una struttura di riproduzione modellata dalle astrazioni del valore - struttura questa che, di per sé, tende a mediazioni delimitate dalla forma merce o che sembra esigere nuovamente una meta-istanza politica, la quale intervenga "dall'alto" in maniera più o meno statizzante, con tutti i pericoli di una autonomizzazione di una simile istanza. Un'organizzazione territoriale alternativa (invece che imprenditoriale) dei "consigli", sulla base di aree abitative, a sua volta, risolverebbe ancor meno il problema, poiché, su questo piano, avrebbe a che fare solo con i resti di un contesto di riproduzione frainteso. Il vecchio movimento operaio, infatti, ha oscillato fra la forma di organizzazione di impresa e quella territoriale, dal momento che, di regola, i sindacati erano organizzati su base di impresa, ed i partiti su base territoriale. Questo, da un lato, corrispondeva perfettamente all'attaccamento all'economia di produzione di mercato, e alla sfera complementare della politica (l'espressione giuridica delle relazioni volitive borghesi), dall'altro.
L'organizzazione di un movimento emancipatore, quindi, non può partire solamente dalle strutture di divisione capitalistica del lavoro (imprese), né soltanto su base territoriale (aree abitative), ma piuttosto deve contenere in sé la forma embrionale (anti)economica di una riproduzione alternativa. Una simile forma embrionale di "economia naturale microelettronica", che superi la proprietà privata dei mezzi di produzione, non è rappresentabile in punti isolati della struttura di riproduzione (il solo principio esistente nella forma capitalistica), ma solo nei punti finali - laddove la produzione si converte in consumo. Poiché solo in questi punti è possibile la costituzione di uno spazio sociale di cooperazione, le cui attività non riportino al mercato, ma che vengano consumate, nei loro risultati, dagli stessi membri.
La scissione economica (fino agli stessi individui) in interesse del produttore ed interesse del consumatore, è una caratteristica di base del sistema produttore di merci e del suo corollario, la proprietà privata dei mezzi di produzione; l'identità istituzionale, sociale e comunicativa dei produttori e dei consumatori è, in questo modo, condicio sine qua non di un superamento della forma valore. Ovviamente, tale identità non è immediatamente possibile nell'insieme della società, ma dev'essere mediata da istituzioni di comunicazione sociale diretta: la "immediatezza" si riferisce qui al mezzo stesso, al linguaggio e alle "discussioni intorno" a tutti gli assunti della riproduzione - contrariamente ad un mezzo diretto, astratto, feticista, senza soggetto e senza linguaggio, così come è rappresentato dal valore. Questo tipo del tutto nuovo di mediazione, tuttavia, deve per prima cosa essere essa stessa mediata, esercitata, provata, ampliata e raffinata, e perciò necessita di forme embrionali che cominciano dove la relazione fra la produzione ed il consumo diventa palpabile, senza istanze intermediatrici. Questo è un problema ineludibile per tutto il movimento sociale emancipatore, non importa quale sia la grandezza o in quale stadio della crisi della riproduzione capitalista esso operi.
Storicamente, il mercato ha sempre ricevuto il suo impulso dalle materie prime ed dai prodotti intermedi, inglobando sempre nuove relazioni riproduttive - e questo non solo per arrivare ai prodotti finali, che integrano direttamente il consumo, ma per arrivare anche alla mediazione del consumo stesso, sotto forma di servizi, incidendo anche sulla sfera intima. Il totalitarismo economico inerente al capitale ha obbligato a che si dominasse senza presupposti la riproduzione umana e che non si lasciasse il minimo spazio a quello che sta fuori dal processo di valorizzazione (fuori dalla redistribuzione statale burocratica, per esempio), eccettuate le attività in sé non valorizzate, o valorizzate solo parzialmente, cui diamo il nome di lavoro domestico, cura dei figli, ecc.. Nel limite storico oggi emergente della forma di valore, si estingue la forza integratrice del sistema economico totalitario, dal momento che la rivoluzione microelettronica, in modi assai diversi, rende disfunzionale e superfluo un numero sempre maggiore di persone. Allo stesso tempo, il sistema non vuole e non può abbandonare la sua pretesa totalizzante, e tenta di tenere in piedi la coercitività della sua forma, anche quando le risorse umane e materiali non possono più essere allocate in maniera soddisfacente.
Per un movimento di emancipazione che è consapevole della necessità di ricreare, a partire dalle forme embrionali, l'identità sociale fra la riproduzione ed il consumo ad uno stadio superiore di sviluppo, ne consegue che deve staccarsi dal mercato e dalla sua presa storica, per mezzo di una sequenza esattamente inversa, cominciando dai servizi e dai prodotti finali che interessano direttamente il consumo, al fine di, a partire da questi prodotti finali, implementare e rimodellare in forma emancipatrice tutta la riproduzione, fino ad arrivare alle materie prime e a superare il sistema produttore di merci.
Questa prospettiva si distingue radicalmente, sia da un'idea di piccole comunità autarchiche che da tutte le concezioni della cosiddetta economia duale. L'autarchia socio-economica non sarebbe una forma embrionale sociale, ma una forma autosufficiente, nel senso peggiorativo del termine, che non vuole né può mantenere il livello di socializzazione delle forze produttive; essa tornerebbe ad uno stadio ancora inferiore a quello del modello piccolo-borghese di produzione mercantile e rimarrebbe, del resto, illusoria, in quanto c'è sempre un qualche componente della produzione che una piccola comunità è incapace di produrre per sé stessa. La stessa idea di autarchia, seppure su scala regionale, "etnica" o nazionale, trasporrebbe soltanto il momento dell'isolamento in un contesto più ampio e, così, non riuscirebbe a far finire la produzione di merci, ma attuerebbe soltanto una delimitazione miserabile (oltre che razzista e patriottica) del rispettivo sistema di relazioni.
Se potesse diventare realtà, una riproduzione autarchica costituirebbe una "comunità coercitiva", che opprime l'individuo secondo il modello delle sette religiose, come già indica l'idea di "comuni spirituali" autarchiche di Rudolph Bahro, dissidente della vecchia Germania Orientale. L'autarchia non va confusa con il desiderio di autonomia sociale. Autonomia non significa far tutto per conto proprio e costringere la riproduzione in un ottuso ethos comunitario. Autonomia significa esattamente il contrario, ossia, significa che le relazioni socio-economiche non si sottomettono più ad una relazione coercitiva esterna, irrazionale e feticista, ma si basano su una comunicazione libera e cosciente, che offre all'ostinazione dell'individuo la possibilità di svilupparsi o di raccogliersi in sé stesso. Pertanto, bisogna occupare un terreno sociale di autonomia in questa accezione, che può vivere solo se non si isola regressivamente ed intrattiene molteplici ed ampie relazioni, capaci di rompere e superare (e non cementare) le relazioni nazionali, religiose ed "etniche", che nel corso della storia della modernizzazione si sono trasformate in modelli di esclusione.
D'altra parte, le concezioni dell'economia duale sono incompatibili con le forme embrionali della "economia naturale microelettronica!, poiché queste non promuovono un interscambio statico con le forme del sistema produttore di merci e non possono "complementarlo" in una coesistenza pacifica. Le idee dell'economia duale non portano, seriamente, a svincolarsi in riferimento alla forma merce. In André Gorz, uno dei più importanti teorici dell'economia duale, per esempio, le attività "autonome" rimangono, in ultima analisi, un semplice passatempo, poiché devono essere sovvenzionate da una "rendita di base" che verrebbe sottratta dalle fonti di mercato, nella forma insuperata di denaro. Gorz considera tutta la riproduzione industriale come irrimediabilmente "eteronoma", poiché una tale caratteristica sarebbe fondata sul potenziale tecnologico. Egli non prende come oggetto di riflessione il problema della forma feticista del valore, né la differenza fra essenza ed apparenza capitalista delle forze produttive microelettroniche.
Ugualmente, Gorz e gli altri rappresentanti della rivendicazione di un "reddito monetario di base" rifletto ancor meno sul fatto che questa sarebbe possibile soltanto per mezzo di un apparato di ridistribuzione all'interno di un'economia nazionale. Al contrario di quello che pensa erroneamente Gorz, non può trattarsi di una mera collaborazione di tutti nel progresso tecnico-materiale della produttività, poiché questo presupporrebbe una riproduzione sociale di scambio economico al di là della forma valore. In un sistema produttore di merci, al contrario, qualsiasi guadagno in produttività deve prima passare attraverso le mediazioni della forma valore e delle sue restrizioni. Ciò significa che non è possibile una ripartizione di prodotti secondo la produttività, ma solamente una distribuzione di denaro secondo il successo sul mercato e, pertanto, secondo la riuscita realizzazione del plusvalore. Per il sistema di coordinate nazionali della "ricetta di base", a sua volta, questo significa che, nella lotta della concorrenza sul mercato mondiale, essa è obbligata ad avere successo, al fine di poter raccogliere fondi sufficienti per la distribuzione monetaria. La nozione di "rendita di base" contiene implicitamente, quindi, una riserva nazionalista e razzista: è soltanto un derivato social-nazionalista del keynesismo di sinistra.
Nella pratica, la "ricetta di base", non importa sotto quale forma, avrebbe sempre per l'individuo un volume molto piccolo, per vivere, e molto grande per morire, ossia, inciterebbe le persone, in ultima istanza, al "lavoro astratto", e li prenderebbe al laccio del mercato. Ecco perché gli stessi liberali flirtano con questo concetto, in quanto tutti loro, attraverso gli sconti compensatori della rendita salariale, vorrebbero tagliare diritti sociali già acquisiti (pensione, sussidio di disoccupazione) ed imporre una dieta monetaria razionata ai salariati, che li obbligherebbe ad accettare, anche in età avanzata, "lavori" decisamente miserabili.
Però, le nozioni di economia duale, soprattutto, non tengono assolutamente conto della crisi del sistema produttore di merci. In maniera abbastanza ingenua, presuppongono una sopravvivenza eterna dell'economia di mercato che rimane, infelicemente, "eteronoma", e solo in ragione di questo possono suggerire, per i diversi settori autonomi, un modo inoffensivo di complemento al sistema del mercato, che sul lungo periodo equilibra una struttura "duale" di riproduzione. Ora, l'assunto muta interamente funzione quando non solo l'intenzione dei settori che devono guadagnare autonomia si volge verso una critica e verso il superamento radicale del sistema produttore di merci, al posto di una semplice coesistenza pacifica, ma anche quando la dinamica del processo di crisi esclude qualsiasi tentativo di pacificazione riformista. Dal momento che già lo stesso dibattito è un risultato della crisi, le controversie sociali ed economiche non tollererebbero più un attaccamento duraturo alle categorie reali della forma valore.
Di fatto, ogni passo verso i settori autonomi di riproduzione, svincolati dalla forma valore, non può ammorbidire la crisi, ma soltanto aggravarla. Alcuni anni fa, in un dibattito sui giornale Junge Welt, l'economista di sinistra Kurt Hübner, redattore della rivista Prokla, ebbe ad argomentare che la minima proposta di svincolo di determinati settori in rapporto alla produzione di merci agirebbe, nella crisi, "a favore dei cicli". Niente di più corretto. Tutto ciò che le persone fanno in maniera cooperativa, al di là della produzione di mercato, è strappato al mercato. Questo significa "perdita" accelerata delle vendite, dei posti di lavoro e del potere d'acquisto. Quindi, per quel che si riferisce alla dinamica di crisi, lo svincolamento sarebbe necessariamente un "auto-riferimento" positivo e rafforzativo.
E, come nelle prime fasi dello svincolamento, l'obiettivo sarebbe la produzione di beni di consumo, e soprattutto la prestazione di servizi (su un piano cooperativo e non-familiare), questo sarebbe anche un colpo portato alle speranze di un rinnovamento dell'economia di mercato per mezzo della famosa "società di prestazione di servizi". Per inciso, questo si riferisce anche alla nozione di Gorz, che non ha nemmeno pensato ad una simile conseguenza. La possibilità della "società di prestazioni di servizi" è, in ogni caso, un'illusione, poiché una parte considerevole del settore terziario non è, in sé, produttivo in termini di capitale, e può essere rappresentato commercialmente solo in forma secondaria e derivata (banche, assicurazioni, commercio, ecc.) o deve ricevere un impulso sotto forma di consumo statale (infrastrutture, istruzione, ecc.). Anche così, l'effetto rafforzativo sulla dinamica di crisi potrebbe essere censurato nel progetto di svinvolo come una sorta di "pugnalata" all'economia di mercato. Wolfgang Schäuble, leader della CDU [Unione Democratico-Cristiana] in Parlamento e fanatico protagonista di soluzioni conservatrici al fine di consolidare l'economia di mercato totale, nel suo libro "Zukunft Zugewandt"(1994), si è scagliato con tutta serietà contro il movimento "Fai-da-te", asserendo che esso ruberebbe terreno e possibilità all'economia di mercato, e favorirebbe una "economia sommersa".
Viene qui utilizzato negativamente quello che il pubblicista nordamericano Alvin Toffler vedeva ancora, nel 1980, come tendenza positiva di sviluppo. Toffler ha creato, allora, il concetto di "prosumer", mescolando un produttore "fai-da-te" ed un consumatore di merci. In un primo momento, infatti, lo stesso movimento di svincolo dislocherà al di fuori del sistema produttivo di merci, una parte di "consumo produttivo", con l'aiuto dei beni prodotti ed acquisiti dal mercato. Toffler, non ha dubbi, vede qui i "prosumer" individuali solo come una sorta di centauri delle relazioni economiche, i quali, ancora una volta, devono rappresentare soltanto un complemento dell'economia di mercato (pensata nel suo pieno funzionamento). Ma, sotto condizioni di crisi e come movimento anti-mercatologico delle forme cooperative di riproduzione, tale svincolo in riferimento al mercato potrebbe acquisire una forza sociale esplosiva. Contro le obiezioni, come quelle di Hübner o di Schäuble, va detto che non abbiamo, in alcun modo, intenzione di assumerci responsabilità per il sistema del mercato ed i suoi "posti di lavoro". Dal momento che la nostra vocazione è il superamento di questo sistema, non scoppiamo in lacrime quando ogni movimento di svincolo forza, allo stesso tempo, la crisi di riproduzione dettata dalla forma merce.
Indubbiamente, è necessario chiarire esattamente quali sono le sfere che per prime ci vengono in mente, quando si parla di questa nuova forma di trasformazione. La definizione teorica per cui questo svincolo deve iniziare dalla fine della transizione fra produzione e consumo, offre solo un concetto generale, il quale, a sua volta, dev'essere concretizzato. Del secondo settore fa parte anche, per esempio, la produzione di televisori, e, tra le imprese di prestazioni di servizi, troviamo anche le banche. E' chiaro che lo svincolo non può avere inizio proprio in questi settori. Innanzitutto, l'obiettivo iniziale sono i settori a portata immediata di iniziative sociali. La produzione di beni e servizi non deve restare profondamente imbrigliata nella divisione capitalista del lavoro. Inoltre, deve mantenere un contatto con la vita quotidiana e causare una sensibile ristrutturazione del giorno-per-giorno. Solo nella misura in cui si guadagna sufficiente terreno socio-economico ed esperienza, sviluppando un know-how proprio, sarà possibile ampliare il campo di riproduzione autonoma.
Le iniziative attraverso settori svincolati di riproduzione, possono anche essere chiamate cooperative, solo che non si tratterebbe precisamente di imprese produttrici di merci, ma di sfere autonomie, con un'identità sociale tra produzione e consumo. Esiste almeno un esempio di un simile progetto, abbandonato dal vecchio movimento operaio: le cooperative di consumo. Va notato - e questo a sua volta dimostra l'ignoranza dei marxisti "ortodossi e della sinistra postmoderna - che il solo menzionare questa parola provoca in loro la caduta dei paraocchi. Qui non si ha per niente intenzione di fondare, avventatamente, una nuova società di consumo. E' soltanto una delle molte possibilità - un momento per provare, nella pratica, la riproduzione autonoma. In un primo momento, si tratta solo di fondare criticamente, con un esempio come questo, la storia del problema dello svincolo, ed illuminare la sua problematica socio-economica. Trattare, fin dall'inizio, il tema come inferiore, è del tutto fuori luogo.
In termini economici, le cooperative di consumo, che vennero fondate dal riformista sociale e "socialista utopico" Robert Owen, sono, all'origine, un passo effettivo verso lo svincolo in riferimento alla forma merce. Di fatto, l'intenzione era quella di eliminare tutto un settore del sistema di mercato per i membri delle cooperative, ossia, il commercio individuale. Al suo posto, sarebbe sorta l'organizzazione autarchica degli acquisti nel commercio all'ingrosso. Così, un momento di riproduzione dettato dalla forma merce viene sostituito da un momento di auto-organizzazione non-di mercato. Per gli attivisti del movimento operaio, che organizzarono queste cooperative di consumo, si trattava, senza dubbio, di un effetto collaterale poco notato, poiché il suo orizzonte storico non era determinato, per quanto poco lo è stato, dall'idea di un superamento della produzione di merci. A loro interessava soltanto la riduzione, per i lavoratori, dei costi di transazione e la sua indipendenza in rapporto alle pratiche non di rado usuraie dei commercianti e, soprattutto, del cosiddetto "sistema sposato" (coazione per cui i lavoratori facevano la spesa, a prezzi esorbitanti, nei negozi dei rispettivi imprenditori, venendo, per così dire, doppiamente sfruttati nel ricevere, di fatto, un "salario in natura", peggiorato).
Tuttavia, quello che c'era di rilevante in quest'intenzione delle cooperative di consumo, è che non si trattava di un "principio", di un altruismo astratto o di qualcosa del genere, ma di obiettivi altamente pratici di "riduzione dei costi" personali e di miglioramento del quotidiano. Questo motivo sarà decisivo anche per un futuro movimento di svincolo. La strategia della "riduzione imprenditoriale dei costi" può essere benissimo smascherata per mezzo di una strategia emancipatrice di "riduzione dei costi" per l'amministrazione domestica che, in questa maniera, conquista una quota di indipendenza dal "lavoro astratto". La forza di cooperazione autonoma, che si è totalmente diluita nel mercato e nello Stato, dev'essere proprio riscoperta sul piano della riproduzione quotidiana ed arricchita col potenziale delle forze produttive microelettroniche. Il tempo speso nella partecipazione ad auto-organizzazioni cooperative è certamente, minore di quello guadagnato per mezzo della "riduzione personale dei costi" - basta pensare alla quantità di tempo e di risorse che l'amministrazione domestica polverizzata negli individui dilapida attraverso un'enormità di cose prosaiche, e questo lo fa ad esclusivo beneficio dei rispettivi "mercati".
La cooperativa di consumo è quindi un esempio ovviamente abbastanza limitato, che ancora non stabilisce un'attività autonoma come tale, restando vincolata, storicamente, all'esistenza del mercato. Il fatto che sia fallita non è dipeso né dallo stadio delle forze produttive o dalla scarsa quantità di tempo fornito dai lavoratori, né dalla mancanza di impegno. Intorno alla fine del XIX secolo più di un milione di persone erano organizzate in cooperative di consumo, e sembrava che questo momento di riproduzione potesse diventare parte integrante del quotidiano e del movimento operaio. Ma questa creatura non era molto amata dai leader politici, e le persone forse vedevano di buon occhio che il commercio individuale portasse avanti una campagna contro di essa e riuscisse, alla fine, a trasformare per legge le cooperative di consumo in imprese commerciali al dettaglio, nella più rigorosa normalità. Così, vennero svuotate del loro vero intento. Le associazioni di consumo si convertirono in conglomerati capitalistici, con il loro carico di male, e l'interesse sociale scomparve, soprattutto perché il "miracolo economico" dopo la seconda guerra mondiale sembrava che avesse abolito il problema. La storia sociale e teorica di questo tentativo, nel contesto di una critica del sistema produttore di merci, non è ancora stata scritta.
Per una nuova iniziativa di cooperative di consumo, le condizioni sarebbero, apparentemente, abbastanza diverse per ciascun paese. Almeno in Germania, si tratta di un problema di legalità, poiché, qui, nessuno riceve un biglietto della metro o ha la possibilità di comprare direttamente dal commercio all'ingrosso, se non si identifica come "rivenditore". In alcune regioni, ci sono anelli alternativi di acquisto che, in generale, promuovono il contatto diretto fra produttori agricoli ecologici e residenti. Ma questi tentativi si riducono, di regola, al "bene di lusso" del prodotto fresco di origine ecologica, e soffrono sia della ridotta organizzazione che della scarsa mediazione con un ampio movimento di critica sociale. In un campo più vasto di relazioni, tuttavia, un tale progetto potrebbe essere perfettamente ricostruito e rendersi, socialmente, gravido di conflitti.
Un secondo esempio sono le cooperative di costruzione abitativa. Anche questa sfera ha una lunga storia, che quanto meno incrocia il vecchio movimento operaio ed ha anche rapporti con altre iniziative di riforma sociale. Non senza rilevanza, per esempio, è stato il movimento "città giardino" che nacque in Inghilterra. Qui, però, il criterio di svincolo in riferimento alla produzione di merci diventa significativo in termini economici: si tratta di costruire e mantenere la case utilizzate dagli stessi membri (identità fra produttore e consumatore). Chiaramente, è anche necessario comprare prodotti dalle imprese di costruzione, ma, rispetto alla costruzione commerciale, è possibile una quota elevata di attività comunitaria. Questa quota può crescere, nel caso che la costruzione (a somiglianza della sfera della microelettronica) è accompagnata dalla conoscenza "politecnica" (know-how di architettura, gestione dei materiali da costruzione, installazioni, ecc.).
L'importante è che il prodotto non ritorni sul mercato come merce, ossia, che la cooperazione non si costituisca in una cooperativa produttrice di merci. E' questa la grande differenza con la costruzione commerciale, che produce case a titolo di merci e ne affitta o vende il loro utilizzo. La costruzione di abitazioni, uffici, laboratori, centri di comunicazione, ecc. diventa, in questo modo, un campo di reddito da capitale. Dal momento che gli investitori di capitale non vogliono utilizzare per sé gli edifici, a loro non basta recuperare il denaro speso nella costruzione e nella manutenzione. Esigono, inoltre, l'ottenimento di un certo guadagno, che sarà in concorrenza con il guadagno proveniente da altri investimenti di capitale e che dev'essere contenuto negli affitti, nelle tasse, ecc.. Gli utenti degli edifici, pertanto, devono pagare questi guadagni al di là dei costi di produzione e di manutenzione e, di conseguenza, spendere "lavoro astratto" in altri campi capitalistici. Il regime capitalista impone, al massimo grado possibile, che tutta la sfera della costruzione sia campo esclusivo dell'investimento di capitale. In questa maniera, non è a caso che le cooperativa auto-organizzate ed auto-amministrate non siano favorite in termini giuridici e tributari, venendo, al contrario, e nella misura del possibile, impedite e rese poco attrattive - il parallelo con le associazioni di consumo è evidente. Anche qui, andrebbe indagata criticamente la storia delle prime iniziative, a partire dalla prospettiva della critica del valore.
Le associazioni di consumo e le cooperative di costruzione abitativa non esauriscono le iniziative fallite dello svincolo. Il problema, tuttavia, è che tali attività conducevano una vita oscura, al margine del programma statale e politicista del vecchio movimento operaio, e non pensavano al concetto di svincolo in una prospettiva di superamento del sistema produttore di merci. Per questo, sono rimasti limitati (per così dire, "senza concetto") ai campi isolati della prassi. A questo si è sommato il controllo della burocrazia di partito e, più tardi, della burocrazia socialista, che aveva come fine quello di impedire qualsiasi iniziativa di auto-organizzazione e di auto-amministrazione, così come qualsiasi comunicazione "orizzontale" autonoma delle unità di base di organizzazione, fra loro. Il dispendio non superato di "lavoro astratto" sotto il regime statale tendeva automaticamente a canalizzare, il massimo possibile, tutta la quota di tempo verso la riproduzione sociale e lasciare che la comunicazione corresse gerarchicamente, dalla cima verso il basso. Com'è noto, è stato per questo che la distinzione fra l'uno e l'altro sistema, anche negli stessi libri didattici, veniva definita come distinzione fra "economia centrale pianificata" ed "economia libera di mercato", e non a partire dalla questione se fosse, o meno, in vigore la produzione di merci. L'identità sociale fra produzione e consumo non figurava fra le mete "socialiste" (oppure figurava solamente distorta, come pseudo-identità nell'universalità astratta dell'apparato statale), e, in questo modo, la stessa questione dello svincolo non poteva essere né nominata né riconosciuta nelle relative iniziative.
In questo modo (e nella diabolica alleanza con la postura difensiva del regime capitalista), quel che fallì non furono solo le iniziative di svincolo delle cooperative di consumo e di costruzione; oltre a questo, il rispettivo potenziale di "sociocultura" del vecchio movimento operaio rimase inesplorato dal punto di vista di una prospettiva trasformatrice. Chiaramente, non si tratta di tornare, per esempio, alla "cultura della lavanderia e del refettorio pubblico" del vecchio quartiere proletario. Tali forme socioculturali nascevano dalla pura necessità ed erano legate allo stadio delle forze produttive di allora. Va ricordato, tuttavia, che le nuove forze produttive fordiste, che presero piede in Europa soltanto dopo la seconda guerra mondiale, soffocarono totalmente le iniziative socioculturali nei processi di commercializzazione ed individualizzazione astratta. Anche le vecchie lavanderia collettive non vennero, as esempio, modernizzate - prima, la pressione dell'offerta capitalista fu in grado di regolare la produzione fordista di macchine domestiche e la struttura dei nuclei familiari. Da questo derivò un aumento del lavoro astratto e del volume del mercato. Ma il guadagno del tempo disponibile per gli individui, attraverso l'uso socialmente polverizzato e attraverso l'esigenza della specializzazione individuale, fu molto minore, in realtà, di quanto ne era presente nel potenziale dello sviluppo delle forze produttive.
Lo stesso vale per altri elementi della sociocultura fallita dei movimenti operai. Le istituzioni del movimento operaio gestivano innumerevoli strutture logistiche, come scuole, centri congresso, laboratori, ecc.. Senza dubbio, a queste strutture non veniva riconosciuto un valore proprio nella prospettiva storica. Qui, il potenziale di svincolo socio-economico non entrava nel campo di visione, allo stesso modo di come avveniva con le cooperative. Tali iniziative erano invece considerate, esclusivamente, come dei semplici espedienti nel quadro dell'obiettivo politico-statale, cosicché non potevano adottare un proprio sviluppo. Molte volte, sono state sommate al patrimonio del partito o di uno dei suoi membri, passando ad essere gestite commercialmente, al fine di rastrellare risorse per il "fondo di guerra" della propaganda politica.
Tutto questo include anche quel complesso economico che si trova alla voce "prestazione di servizi", che è stato gestito sotto forma dei vecchi "refettori pubblici", delle sale congressi, dei centri di comunicazione, ecc.. Stabilimenti di questo tipo sono sempre stati un momento importante di tutto il movimento sociale, in quanto le persone avevano bisogno di luoghi dove incontrarsi, discutere, mangiare e bere insieme. Nella storia culturale, esistono esempi famosi di questo. Si pensi, per esempio, ai giacobini "club di strada", della rivoluzione francese, ai celebri "salotti" dei romantici, alla cultura letteraria dei caffè o ai club inglesi. Non senza ironia, è ancora poco noto il fatto che ai primordi del movimento operaio socialdemocratico, in Germania, gli osti abbiano svolto un ruolo di rilievo. Allo stesso modo, il movimento alternativo e del '68 ha dato un nuovo impulso a tali strutture. Il fenomeno riapparve, in Germania Occidentale, nei grandi movimenti di gioventù degli anni '70, con la loro esigenza di case autogestite. Il resto dei centri di comunicazione che sorsero all'epoca (fra cui divenne noto il Komm di Norimberga) venne ben presto eliminato dall'amministrazione comunale, per i costi e per calcolo politico conservatore.
I bisogni quotidiani cui si legano tali strutture vengono, poi, differenziati quasi integralmente nelle forme capitalistiche. La base, in tal senso, è costituita dalla polverizzazione in micro-unità domestiche, che strutturano un'offerta di macchine fordiste per la cucina. Allo stesso tempo, l'industria capitalista del mobile è riuscita a creare, sotto la norma fordista, un'assurda competizione di prestigio in rapporto agli accessori di cucina, cui stupidamente si inchina sotto forma di "lavoro astratto". E' fuori questione il carattere desiderabile delle piccole cucine, usate occasionalmente, ad esempio, per preparare una cena da consumare a due, a lume di candela. L'incredibile spreco di tempo e di risorse che viene proposto - senza proteste - alla massa socialmente atomizzata, per mezzo del processo di valorizzazione dettato dalla struttura del valore d'uso, dev'essere qualificato come un prodotto maturo della macchina dei sogni capitalista.
Da un lato, a complemento, ci viene propinata dalle grandi compagnie e dalle strutture delle burocrazie statali, l'impresa proverbialmente miserabile delle cantine e dei refettori, organizzata secondo i punti di vista della razionalità economico-imprenditoriale, dove il cibi è sempre l'ultima cosa. Dall'altro lato, la gastronomia commerciale guadagna terreno - dalle catene di fast food basate sui bassi salari, passando per le imprese familiari con relazioni interne prossime alla schiavitù e gestite da baby-yuppie selvaggiamente professionali, con i capelli corti tagliati alla Hitler, dove le più infime porcherie si distinguono perché riescono a sfamare, al massimo, un passerotto. Per i "nuovi poveri", restano le donazioni delle organizzazioni caritatevoli - che nel frattempo si sono commercializzate - o le azioni socialmente infernali dei parroci, che mettono insieme gli avanzi dei buffet di lusso per i senzatetto. In confronto, il sequestro armato di un ostaggio, può essere definito un'azione emancipatrice. E i locali di riunione si trovano ad essere saldamente nelle mani delle piccole associazioni dei conservatori tedeschi e degli apparati di amministrazione comunale.
Se non esiste più un locale dove svolgere una discussione critica della società, nasce la questione della fattibilità, in questo settore, di "club" auto-organizzati come elemento di un'economia svincolata, nei quali le persone abbiano accesso alla stampa internazionale (e, forse, ad una biblioteca), dove fare uso di sale per riunioni e si possa mangiare e bere. Nei paesi anglosassoni, inclusi gli Stati Uniti, questo è stato, per molto tempo, un momento quasi ovvio della vita sociale, anche se si è dissolto nel corso dello sviluppo capitalista. Quello che è essenziale, è di non fondare, per un pubblico qualsiasi, un oggetto commerciale indirizzato al profitto, ma, piuttosto, far sì che le persone preparino una simile struttura per sé stesse, per le proprie necessità. In termini economici, questo vorrebbe dire che ogni membro pagherebbe, secondo le sue possibilità, una contribuzione unica e/o periodica, per cui gli verrebbe fornito tutto quello che gli serve, senza che l'impresa debba tornare sul mercato - nel quadro, per esempio, dei nidi autogestiti, che costituiscono un altro esempio (ed uno dei pochi che ci lega al movimento del '68). E' irrilevante che, per le necessarie attività, alcuni membri siano in parte mantenuti economicamente - ciò che conta è che tutto non si trasformi in un'impresa rivolta al mercato. E, ovviamente, una simile struttura - al contrario di una "impresa" sottomessa ad una razionalità economico-imprenditoriale - non deve essere di idee ristrette e possa, anche, accettare persone benestanti.
Ovvio che tutto questo non è possibile soltanto con un pugno di persone. In termini puramente socio-economici, nella Germania di oggi non è impensabile che 100 persone, ad esempio, mettano insieme, come punto di partenza, 10mila marchi ciascuno - che sarebbe un cospicuo milione. E' anche facilmente fattibile che questi cento sborsino cento marchi al mese per un'attività (e sono altri 10mila marchi) senza dover mai comprare sul mercato i corrispondenti servizi. Ma la sinistra è ormai tanto ridotta e tanto smembrata in infinite ramificazioni che si combattono o, nella migliore delle ipotesi, si ignorano, che appare quasi impossibile, perfino nelle grandi città, riunire cento persone (con le loro famiglie) per un simile obiettivo - questo per non parlare dei capitalisti normali. Con stupore, si deve riconoscere che il capitalismo è riuscito, anche nelle cose più semplici, ad erigere barriere socio-psicologiche quasi insormontabili, fra gli individui atomizzati - barriere queste che, al presente, solo le sette religiose, per fini più o meno oscuri, sono capaci di rompere.
Gli esempi dati fin qui, che possono ancora essere ampliati, si incrociano in parte, senza dubbio, con le concezioni di André Gorz, e queste, a loro volta, con le idee del "comunitarismo" anglosassone. Non si può formulare la critica necessaria verso tali iniziative dal punto di vista, per esempio, del vecchio movimento operaio, come eventualmente avviene da parte degli ortodossi accaniti, e negare, così, astrattamente i momenti positivi che vi sono in Gorz e nello stesso "comunitarismo". Ma come è già stato accennato in relazione ad una critica dell'economia duale, l'idea di uno svincolo critico del valore è pensata in un contesto di critica sociale completamente diverso da Gorz o dalla teoria comunitarista, nonostante le somiglianze. Questo non si riferisce soltanto alla questione di base di una critica nuova e radicale, al posto di un sollecito "complemento" al sistema capitalista. Piuttosto, sono le sfere autonome, al di là del mercato e dello Stato (come già descritto), che devono essere il punto di partenza di un movimento di superamento che inglobi, in ultima istanza, tutta la riproduzione, e non il traguardo di un "auto-aiuto" meramente marginale.
Il "dispiegarsi" socio-economico di ogni sistema di riproduzione può essere immaginato, in un primo momento (seppure in ambito ristretto), come il processo nel quale, per esempio, molte di queste iniziative congiunte incorporano nel loro contesto non di mercato un settore che fino a prima aveva rappresentato una fornitura per il mercato. Un esempio semplice: varie cooperative di costruzione potrebbero amministrare, insieme, un deposito di sabbia, una cava di pietra o una fabbrica di ceramica, secondo le necessità. Oppure, per fare un altro esempio che escluda ogni restrizione patriottica, le diverse cooperative potrebbero ordinare il loro caffè o i loro mobili ad una cooperativa in America Latina che sia interessata a questo.
Il problema economico di base consiste nel fatto che le attività descritte non siano legate per mezzo dello scambio di merci e di una relazione monetaria, ma che, innanzitutto, si crei un'identità mediata fra produttori e consumatori, su una vasta scala. Non si tratta di una specializzazione economica-imprenditoriale, ma di una divisione politecnica delle funzioni, in grado di alternare le persone - e questo in termini regionali e continentali, in quanto non c'è alcun motivo di non produrre, per un certo periodo di tempo, caffè in America Latina o formaggio di capra in un'altra città ( cosa che funziona, senza dubbio, solo quando il know how di base si pensa che sia diffuso come conoscenza e quando, almeno per quanto riguarda certe tecniche, la precisione e l'abilità si trovano più nelle macchine programmate che nella formazione personale). Inoltre, non si tratta di uno scambio di equivalenti astratti, sotto una semplice forma naturale, ma di una pura divisione tecnico-materiale di funzioni, nella quale conta soltanto che, all'interno di un contesto funzionale, le cose necessarie vengano prodotte nella quantità e secondo la qualità necessaria. Questo, da un lato, può essere pensato come la divisione delle funzioni all'interno di una fabbrica, ma in forma ampliata; qui però risuona l'idea marxista di "fabbrica" dell'insieme della società, aggrappata ancora, dall'altro lato, a quel concetto di "eserciti del lavoro", che ancora non trascende il sistema del "lavoro astratto". Allo stesso modo in cui la relazione esterna fra le unità di riproduzione è stata pensata come lo scambio naturale di equivalenti astratti, così anche la relazione interna è stata pensato soltanto come la forma naturale della razionalità imprenditoriale. Ora, ci sarebbe da raggruppare le divisioni funzionali in un contesto di identità fra produzione e consumo - contesto questo rivolto puramente alla necessità dei membri. Questo sarà del tutto possibile, con certezza, solamente se esiste già un sistema ampio e scaglionato di riproduzione non di mercato. Durante il periodo di transizione, si può immaginare che determinate produzioni verranno fornite solo in parte ad un contesto autonomo, in una forma non di mercato, in parte anche al mercato. Sono pensabili anche altre forme. Di fatto, su questo piano termina la possibilità di definizioni puramente teoriche ed ha inizio, anche oltre il rifiuto della concretizzazione del vecchio marxismo, la sfera nella quale è possibile soltanto la pratica sociale dello "impara facendo", accompagnata da un inquadramento teorico interdisciplinare di economisti, tecnici ed organizzatori critici della società.
Va precisato, ancora una volta, che gli esempi citati possono anche essere praticati isolatamente (ed oggi, questo è auspicabile soprattutto nei punti che coinvolgono una logistica elementare per la critica sociale teorica stessa), ma che un effetto sociale non può essere raggiunto, al principio, per mezzo della progressiva universalizzazione di esempi pratici isolati. Questa sarebbe la vecchia idea e, nel senso peggiore, utopica. Piuttosto, l'obiettivo dev'essere quello di elaborare un qualche programma o abbozzare una risposta all'inevitabile domanda di un nuovo movimento sociale: che fare? E questo nonostante, o proprio a causa dell'attuale calma sociale sotto il cielo di piombo del neoliberismo.
Com'è noto, i movimenti sociali non possono essere tirati fuori dal cappello, dai teorici; piuttosto, si sviluppano spontaneamente, pur non senza, è chiaro, un certo impulso iniziale o un'attività volontaria di certe persone. Però non si può predeterminare dove, perché ed in che modo tali movimenti avranno inizio. L'essenziale, tuttavia, è che le idee per una prassi rivoluzionaria possono avere un quadro sociale solo attraverso un movimento sociale. Soltanto quando molte persone, allo stesso tempo ed in molti luoghi, cominciano ad "uscire dai binari", una volta che non vogliono, né possono, più vivere come hanno vissuto fino a quel momento, nasce la possibilità teorica di una prassi sociale.
D'altra parte, però, la concretizzazione teorica della questione del superamento non è direttamente vincolata all'esistenza di un movimento di massa. Se partiamo dal fatto, per l'appunto, che in futuro tutte le questioni della trasformazione non verranno più formulate nel quadro dei presupposti di una società capitalista del benessere e dei vincitori del mercato mondiale, ma attraverso gravi shock economici, sociali e (post)politici, allora diventa molto più urgente che si concretizzi teoricamente il problema di un superamento del sistema produttore di merci e che si svolga un dibattito su tale assunto. In questo senso, l'obiezione sollevata dai rappresentanti della Teoria Critica "ortodossa" e dalle sinistre postmoderne per cui la critica radicale del valore, con il concetto di "svincolo" e le sue implicazioni, si sia improvvisamente votata ad una "prassi" inferiore e ottusa, non è soltanto insensata - poiché vede in maniera equivoca la tematica della questione del superamento sotto la luce di un falso immediatismo - ma è anche grossolanamente sbadata, in quanto implica una posizione che non si basa sugli sconvolgimenti sociali e che, nel migliore dei casi, degrada la critica del valore ad una sorta di hobby postmoderno ed infra-accademico.
La crisi storica che si diffonde per il mondo, e le sue conseguenze sociali distruttive, ci impone, anche, da un punto di vista complessivo, la questione di una garanzia delle necessità di base per tutti. E, di fatto, tutti gli esempi citati, dalle associazioni di consumo, passando per le cooperative di costruzione fino ai club, ai centri di riunione o agli asili, si riferiscono a necessità basiche materiali, sociali o culturali. Si potrebbero aggiungere ancora settori come la produzione di alimenti, di vestiario, di mobili e di elettrodomestici, beni culturali, o fornitura di energia (solare), parte di infrastrutture, formazione tecnica, servizi sociali, ecc.. E' ridicolo imputare ad una simile problematica un'opzione riduzionista per la "sussistenza", nel senso di un abbassamento del livello di necessità. Al contrario, l'obiettivo è proprio non solo quello di affermare, contro la crisi del sistema capitalista, un livello elevato di necessità per mezzo dei settori autonomi, ma anche superare le restrizioni insensate del mercato, che esige un enorme spreco di tempo e di piacere nell'individualizzazione economica astratta.
Su un altro piano, ci si deve chiedere cosa siano, nella realtà, la ricchezza ed il lusso. Insieme al "lavoro astratto" ed al suo frutto storico, la struttura capitalista del valore d'uso, dev'essere criticato anche il concetto di ricchezza e di lusso capitalista. Solo l'idea per cui optare per le necessità di base potrebbe significare di optare per la povertà di necessità, è già rivelatrice. Inconsciamente, si ammette così che le necessità di base stesse, nel capitalismo diventano di fatto, povere. Il lusso capitalista, nella cultura di massa (e più che mai nella sua variante postmoderna), si riferisce soprattutto alle cose secondarie. Il possesso orgoglioso di un telefono cellulare o di una settimana di ferie ai Caraibi (un'offesa culturale non solo per i Caraibi, ma per tutto l'ambito di questo mondo), con cui le persone ritengono di porsi, in termini di consumo, all'apice delle forze produttive, nascondono soltanto il fatto per cui l'ampliamento della ricchezza secondaria è stato seguito, storicamente, da un ampliamento complementare della povertà primaria.
Nella modernizzazione capitalista, il tempo libero a disposizione, per la maggioranza delle persone (incluso il management), è diminuito drasticamente. Inoltre, le cose semplici come gli alimenti freschi dell'orto, i mobili in legno massello ecc. non sono diventati relativamente più convenienti, ma sempre più cari, fino a convertirsi, al giorno d'oggi, in beni di lusso. Soprattutto, tuttavia, lo spazio fra gli individui è diventato sempre più stretto. Se non prendiamo come misura la povertà in massa prodotta dalla modernizzazione capitalista, diventa evidente che lo spazio vitale ed abitazione, per la maggioranza delle persone, si è sempre più ristretto. "Cassetta postale per lavoratori", un'espressione tedesco-orientale, può essere generalizzata alle costruzioni, all'architettura, alla pianificazione delle città e alla politica della colonizzazione interna di tutto il sistema produttore di merci, che ha trasformato lo spazio ed il tempo in merci. A fronte di questo, occorrerebbe invocare, contro le restrizioni della forma valore e senza ripudiare le forze produttive moderne come tali, una ricchezza della necessità di base - o, perfino, un lusso del tempo e dello spazio. Questo include, anche, una certa indifferenza per le innovazioni sempre nuove e resesi indipendenti sul piano delle cose, il cui dispendio non ha più alcuna relazione con la loro utilità. Il cellulare, per esempio, e la possibilità di parlare, allo stesso tempo, con due o tre persone al telefono non rappresenta più un progresso così significativo in rapporto all'invenzione di base, centenaria, del telefono (similmente al CD in relazione al disco di vinile) al punto da giustificare lo spreco insano di tempo e risorse per la produzione e l'offerta supplementare.
La prospettiva di settori autonomi di svincolo relativamente alla produzione di merci soffre ancora di un'altra obiezione - riguardo ai dubbi sulla sua "efficienza economica". A prima vista, sembra che forme di riproduzione così autonome non sarebbero mai in grado di scalzare il mostruoso livello di divisione capitalista del lavoro e l'elevata intensità di capitale, senza ricadere, immediatamente, ad un livello primitivo di "efficienza". Questo argomento non solo evita di considerare il carattere peculiare delle forze produttive microelettroniche, che rendono utilizzabile su piccola scala un alto potenziale di produttività, ma rimane anche prigioniero delle categorie della razionalità imprenditoriale.
Sotto la pressione della concorrenza di mercato, la spesa di capitale non è determinata, nella sua essenza, dalle esigenze sensibili e materiali, bensì dalla coercizione dei tassi medi di profitto, che rappresenta un'astrazione sociale. Il fatto per cui la produzione di mele e pomodori, che crescono quasi dappertutto, raggiunge, sul mercato, un volume gigantesco che sperpera insensatamente trasporto ed energia, è unicamente ed esclusivamente colpa della misura della valorizzazione astratta. Quando si parla di "efficienza" imprenditoriale, quello che implicitamente si indica è sempre questa misura, la quale, di per sé, non coincide con i metodi razionali di produzione tecnica e materiale. Sarebbe necessario, quindi, distinguere fra utilizzo di tecniche di economie del lavoro e forme di organizzazione, da un lato, e concetto di "efficienza" dettato dalla valorizzazione, dall'altro lato. La tecnica dell'economia del lavoro è soltanto un momento parziale della razionalità imprenditoriale distruttiva e, inoltre, sotto il suo dettato, essa non porta, ad esempio, ad un miglioramento nel lavoro, ma alla semplice "mancanza di lavoro", alla disoccupazione.
Nel concetto di "efficienza" imprenditoriale, va criticato ancora un altro aspetto, del tutto indesiderato nelle forme di riproduzione autonoma. Si tratta della cosiddetta "capacità massima". Questo momento, in condizioni capitalistiche, si manifesta sotto una forma particolarmente assurda, travisata: da un lato, la capacità rimane inattiva quando l'impresa non riesce ad ottenere per sé un potere di acquisto sufficiente; dall'altro lato, per le ordinazioni di mercato, la produzione deve occupare 24 ore al giorno, senza tener conto delle necessità o del benessere degli "occupati". Sotto la pressione della concorrenza, oggi gli amministratori esigono una "dilatazione degli orari di funzionamento delle macchine", ivi incluso il lavoro notturno e festivo. In una cooperazione che includa l'identità fra produttori e consumatori, questo non può essere considerato come "efficienza", ma soltanto come frutto di un cervello malsano.
Fin da quando le persone hanno cominciato, per esempio, a costruire case in pietra, il materiale veniva preso da cave, le quali, diversamente, rimanevano inattive. La stessa cosa può essere applicata ad un contesto di cooperative autonome, ed anche a laboratori e a mezzi di produzione. Al contrario, una cava di pietre, in quanto impresa capitalista - nella condizione di automa imprenditoriale economicamente atomizzato - spaccherà il massimo possibile di pietre e avrà particolarmente "successo" se tutta la regione, in un breve lasso di tempo, verrà trasformata in un paesaggio lunare. A sua volta, in una "crisi economica" (soltanto il concetto già indica il carattere irrazionale della forma di riproduzione), quando l'estrazione di pietre smette di essere "redditizia" in termini imprenditoriali, l'impresa viene "chiusa", e inoltre appone una targa con su scritto "Divieto di ingresso", anche se la popolazione per questo sarà costretta a vivere in tende o grotte.
Bisogna quindi stabilire una differenza fondamentale fra la razionalità assurda delle imprese ed una considerazione del rapporto costo-beneficio rispetto al tempo, alle risorse ecc. in una produzione per necessità concrete. I criteri imprenditoriali interiorizzati, che si manifestano come falsa obiettività, devono essere coscientemente superati e smascherati nella loro assurdità (questo è, per così dire, un compito propriamente analitico o perfino "propagandistico"). Se confrontiamo la spesa personale dei membri di una cooperativa alle offerte di mercato ed al relativo dispendio necessario di "lavoro astratto", la riproduzione autonoma, in molti casi, sarà perfettamente "capace di concorrere" in termini sociali. Ovviamente, questo non si applica a tutte le sfere, e di certo non alla produzione di materie prime. Era assurdo, per esempio, che nella campagna cinese del cosiddetto "grande balzo in avanti", sotto Mao Tse-Tung, l'acciaio venisse fuso in forni da giardino. Non si trattava, tuttavia, di un'iniziativa dei partecipanti al fine di soddisfare le proprie necessità, previamente discusse, ma di una campagna statale (e naturalmente fallita) "dall'alto", in vista della crescita della grandezza astratta della "produzione di acciaio", una delle categorie dell'economia politica.
L'alternativa socio-economica deve guardare ad un rapporto plausibile con la spesa. Ma "l'auto-sfruttamento" delle prime imprese alternative non era dovuto ad una semplice incapacità tecnica o organizzativa, ma, innanzitutto, alla produzione rivolta al mercato e dal coinvolgimento nella forma capitalistica della divisione del lavoro. In un'identità immediata, o istituzionalmente mediata, fra produttori e consumatori, al contrario, la questione del dispendio di tempo può essere gestita in maniera flessibile. Se, in un contesto autonomo, la persona trascorre 10 ore a produrre qualcosa che, con il "lavoro astratto" mediato dalla forma merce, viene ottenuto in 10 minuti, la disparità naturalmente sarebbe troppo grande perché questa possa essere la prima sfera ad essere restaurata. Qui, lo svincolo dalla forma merce può essere raggiunto soltanto con un grado di interrelazione molto più alto. Del tutto diverso è il caso di una disparità, diciamo, di una a due ore. Poiché la quantità astratta di tempo, che già costituisce un prodotto del capitalismo, non può in alcun modo essere l'unico criterio. E' un'esperienza palpabile il fatto che un'ora di "lavoro astratto" viene sentita come un'eternità rispetto a due ore di attività in un contesto sociale soddisfacente.
Il calcolo del tempo svincolato dalla produzione di merci è arricchito di criteri che assolutamente non esistono nella razionalità d'impresa. La riduzione del tempo a quantità astratte, è la conseguenza del "lavoro astratto", che si mantiene separato da tutti gli altri momenti della vita. Il superamento della forma valore, significa superare la separazione fra "lavoro" e "tempo libero", e, pertanto, il "lavoro" come tale. Questo non vuol dire, ovviamente, che, durante l'operazione di una macchina complessa, si possa bere caffè o giocare a scacchi. Sarebbe ridicolo pensare il problema in questo modo. Cosa diversa, però, è il fatto per cui lo spazio sociale di produzione non sia più separato sotto il segno della razionalità imprenditoriale, che sia possibile "darsi tempo", che il tempo e lo spazio dell'attività produttiva sia attraversato da criteri sociali, culturali ed estetici, dal piacere, dalla contemplazione, dalla riflessione ecc. - e ivi inclusa l'architettura e la relazione fra le sfere della produzione e dell'abitazione.
Anche sotto molti altri aspetti, il calcolo delle risorse per una riproduzione autonoma deve differenziarsi dalla razionalità imprenditoriale. Se, ad esempio, la produzione di frutta e legumi per il mercato appare, come tutto indica, "economica" in maniera ineguagliabile, perché i prodotti vengono coltivati secondo norme di confezionamento, esposti a radiazioni e immagazzinati per mesi sotto gas, raggiungendo in tal modo il massimo di insipienza, oppure perché tutta una regione naturale è stata contaminata e i fiumi sono così inquinati al punto da sconsigliare la balneazione, oppure, ancora, perché i salariati miserabili devono esporsi, senza protezione, a pesticidi ed erbicidi, come se fossero sotto l'attacco di gas da combattimento - allora, non è in alcun modo accettabile adottare l'imposizione di un tale calcolo capitalista. E questo vale, anche, per tutte le altre cose. Uno svincolo relativo alla produzione di merci significa scendere in maniera inappellabile fino alle radici, a partire dall'auto-riflessione, per fissare tutte le condizioni materiali e sociali della vita, svincolando, così, il necessario calcolo del dispendio di tempo e risorse dal calcolo capitalista di tempo astratto. Sotto un aspetto generale, questo porterà ad un grande guadagno di tempo disponibile e, in particolare, a grandi modifiche al calcolo, non appena si metterà via la lente deformante dell'economia d'impresa.
Ci sono ragioni più che sufficienti perché si rendano possibili e necessarie un'anti-economia svincolata dalla produzione di merci e la costituzione di settori autonomi, di modo che tale anti-economia inizi dal punto di arrivo della transizione dalla produzione al consumo, ed anche sul piano delle necessità di base. Quello che è essenziale è che a questo sia vincolato, in primo luogo, per mezzo del superamento del quotidiano socialmente lacerato e della "riduzione dei costi" personali, un guadagno di tempo disponibile e di soddisfazione per gli individuo; cosa che, in secondo luogo, possa essere guadagno di un momento di autonomia e di indipendenza dalle imposizioni del capitalismo; e che, in terzo luogo, venga sviluppato un know-how ed un'esperienza per un superamento complessivo del sistema produttore di merci in tutta la società. Questo svincolo è qualificato come antieconomico, in quanto il concetto di economia, nella storia della modernizzazione, è stato stabilito dalle forme gerarchiche della socializzazione capitalista.
Sarebbe un errore, però, immaginare il processo in generale sotto una prospettiva evoluzionista. Questa probabilmente sarà la censura del lettore marxista o postmodernista della cattiva volontà, per il quale "la direzione, come tutto, non è conforme". Questo lettore si compiace delle dimenticanze, soprattutto in relazione alle argomentazioni indesiderate, e, così, probabilmente egli avrà già dimenticato che tutto il problema non si svolge nel contesto di una chimera qualsiasi, ma in un'esistente crisi mondiale del sistema produttore di merci, che toccherà anche lui, se non l'ha già fatto. Nello stesso modo in cui lo svincolo, come prassi sociale, è impossibile attraverso la generalizzazione progressiva di esempi isolati, ma soltanto per l'intermediazione di un movimento sociale, così anche un tale movimento di svincolo non può insinuarsi in maniera evolutiva, serenamente, di settore in settore, attraverso il sistema di riproduzione sociale. Il fatto che la direzione dello "sdoppiamento" sia contraria al programma del marxismo del movimento operaio, ossia, non procede dalle industrie di materie prime alla produzione di beni di consumo, ma al contrario, non ci dice niente circa la velocità storica del processo.
Qui si fonda, anche, una differenza essenziale sulla questione della "forma embrionale", fra trasformazione proto-capitalista e trasformazione post-capitalista. La dinamica della crisi capitalista riduce drammaticamente l'orizzonte temporale della transizione. Davanti a noi, non si estendono secoli di uno sviluppo evolutivo che, in un lontano futuro, raggiungerà un culmine "politico-rivoluzionario", ma, piuttosto, una transizione che durerà, al massimo, a partire da un terremoto della società mondiale, alcune decadi, nel corso delle quali verrà deciso tutto, senza che la giravolta possa assumere, ancora, la forma di una "rivoluzione politica". La "forma embrionale" dei settori svincolati ha, pertanto, un valore del tutto diverso dalla "forma embrionale" della moderna produzione di merci, nell'epoca della preistoria della borghesia. E' un fenomeno necessario per poter rompere l'ottusità imprenditoriale e stabilizzare, in termini riproduttivi, un movimento sociale di superamento - sebbene non sia un "embrione" nel senso della metafora biologica.
Per questo, una teoria ed un'analisi dello svincolo devono essere, allo stesso tempo, non solo una teoria ed un'analisi della crisi, ma devono, anche, accompagnarsi ad un dibattito pianificatore di tutta la società. La teoria della pianificazione può essere anteposta al movimenti di svincolo, dal momento che questo, probabilmente, si vedrà costretto ad organizzare la trasformazione, non a piccoli passi, ma a grandi falcate. Teoricamente, questa trasformazione dev'essere distribuita tanto nella prospettiva dell'identità immediata quanto dell'identità mediata - da un lato, il problema dello svincolo diretto delle necessità di base e, dall'altro, il problema dello scaglionamento sociale della riproduzione non di mercato. Perciò, è necessario elaborare un dibattito storico circa la pianificazione, e da questo siamo ancora molto distanti. Solo l'unità fra teoria della crisi, teoria dello svincolo e teoria della pianificazione può sviluppare un'immagine concettuale anti-economica coerente. E non è a caso, indubbiamente, che oggi i vecchi marxisti, i rappresentanti della Teoria Critica "ortodossa" e la sinistra postmoderna non vedono alcun interesse proprio in questi tre aspetti teorici, e preferiscono reprimerli o lasciarli da parte.
- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista KRISIS, nº 19, del 1997 – ( 4 di 5 – continua … )
fonte: EXIT!