Lo zen e l’arte di navigare

Creato il 22 dicembre 2013 da Antonioriccipv @antonioricci

Mail, link, tweet: la rete è fonte di mille distrazioni. La filosofia slow web insegna a restare calmi e connessi.

Portare a termine un compito su uno schermo collegato al web è un obiettivo in competizione con la notifica continua di messaggi, la tentazione di andare a controllare un aggiornamento di status, l’impulso di interrompere la lettura al terzo rigo, seguire link a catena, cliccare su un annuncio pubblicitario. Viviamo e lavoriamo immersi in questa selva di input, da cui però è possibile difendersi; lo dicono i sostenitori dell’uso consapevole – e proficuo – delle tecnologie. Idee variamente chiamate calming technology, contemplative computing, slow web.

Qualcuno invoca un “sabbatico digitale” (in programma per il 7 e l’8 marzo 2014, sabbathmanifesto.org, da estendere a una settimana intera, cioè dal 5 all’11 marzo, per i più piccoli, screenfree.org) o altri tipi di digital detox e diete mediatiche. Ma la proposta più seria (e realistica) è adottare un comportamento più “zen” e disciplinato, senza per questo dover “staccare la spina”. La filosofia dello slow web, si legge su theslowweb.com, è tornare ad avere una vita; una vita anche offline, s’intende: avere accesso in tempo reale alla rete ha i suoi vantaggi, ma non bisogna diventarne schiavi.

Il concetto di management dell’attenzione viene approfondito nelle università più prestigiose, e le tecniche di “resistenza” sono oggetto di discussione anche tra tecno-entusiasti. Uno dei manuali più recenti è The Distraction Addiction (Little, Brown & Co 2013), di Alex Soojung-Kim Pang, ricercatore a Stanford e a Oxford. Secondo il testo, l’antica arte della meditazione può far sviluppare una forma di disciplina contro la dipendenza dalla distrazione. Un’idea in linea con il cosiddetto “zenware”, app e strumenti digitali per migliorare “l’ambiente” creato dal programma che si sta usando, di solito semplificandolo e rendendolo piùfriendly. Esempi sono OmmWriter per la scrittura o Turn Off The Lights per i video. Lo stesso scopo di un filone di ricerca al Calming Technology Lab (università di Stanford), che studia tecnologie che inducono stati di calma.

È ormai superata la contrapposizione tra la tecno-utopia alla Clay Shirky, fede incondizionata nelle possibilità della rete, e la tecnodistopia per cui il web ci priverebbe della capacità di approfondire, come dice Nicholas Carr in Internet ci rende stupidi?. Ora in molti si sforzano di dimostrare che è vero, internet ci sta cambiando e alcune preoccupazioni sono fondate, ma è inutile remare controcorrente, queste tecnologie sono destinate a rimanere, e anche ad arricchirci. A patto che riusciamo a gestirle. Lo sostiene Howard Rheingold nel suo Perché la rete ci rende intelligenti (Raffaello Cortina editore, 2013). «I liberi flussi di informazione digitale possono arricchirci se usati correttamente, o risultare improduttivi per il lavoro e tossici se non sappiamo come riceverli (o escluderli selettivamente)», scrive. Bisogna imparare a costruirsi un’intelligenza a misura di rete, un know-how digitale che ci permetta di seguire solo quello che interessa.

La nostra attenzione è un bene prezioso. Nell’enorme quantità di foto, post, messaggi, cinguettii e commenti, si fa a gara per farsi cliccare, scaricare, guardare, seguire. E noi, che volentieri ci prestiamo e contribuiamo al sovrappiù di dati, rischiamo di finire sommersi, incollati agli schermi dal mattino e per lavoro tutto il giorno, per poi usare gli stessi dispositivi con intenzioni ludiche fino a notte, nella ricerca continua di una piccola gratificazione. Non sapere se troveremo quella ricompensa ci spinge a controllare di continuo, generando ansia, stress, insonnia, perdita di lucidità al lavoro. Molti tendono a trattenere il respiro, mentre aspettano che la casella di posta abbia scaricato le email. E si diventa facilmente vittime della sindrome da vibrazione fantasma (la sensazione che il cellulare stia segnalando una chiamata o

un messaggio anche se non è vero), o della fear of missing out, la paura di perdersi una qualsiasi cosa nel mondo virtuale, e dunque di restare anche solo poche ore disconnessi. «In questo ecosistema della distrazione prevale la logica dell’esplorazione all’infinito, lo stimolo a uscire subito da un ambiente (per esempio una pagina scritta) per entrare in un altro, sia esso un link a un altro testo, un video o una gallery», osserva Stefania Garassini, titolare di un corso al dipartimento di Scienze della comunicazione della Cattolica di Milano e traduttrice dei due saggi di Rheingold e Carr. Per come siamo fatti, naufragare in questo mare ci viene naturale. La nostra mente procede per associazioni e divagazioni «come i nostri antenati, che prendevano in considerazione tutti gli stimoli per captare ogni segnale di pericolo. Poi abbiamo imparato a focalizzare l’attenzione, e appreso la lettura sequenziale. Ora dobbiamo imparare a essere net smart», come il titolo originale del saggio di Rheingold, «secondo cui possiamo organizzarci in modo da prendere solo il buono delle tecnologie in cui siamo immersi». Per esempio, imparando a riconoscere cos’è urgente, se bisogna seguire subito quel link o lo si può fare in un altro momento, «usando tecniche di respirazione o di concentrazione tipiche dello yoga per sviluppare l’autocontrollo necessario», sottolinea Garassini.  A volte anche accorgimenti minimi sono d’aiuto, come incollare un post-it al lato dello schermo per tenere a mente l’obiettivo della giornata, o usare i segnalibri per ritrovare quello che non è il caso di consultare subito. «Riguardo ai bambini, bisogna evitare che siano esposti a quello che Rheingold chiama l’equivalente del fumo passivo», aggiunge Garassini, «cioè tenerli al riparo dall’attaccamento morboso alla realtà virtuale». In altre parole: insegnar loro a non ignorare la persona in carne e ossa che hanno davanti per seguire l’ultimo post su un social network. «Un modo per gestire la quantità di informazioni in rete è sviluppare un sistema di valutazione della qualità, evitando di perdere tempo con contenuti-spazzatura. Scegliere, cioè, di chi fidarsi», sottolinea Marino Cavallo, docente di Scienze della comunicazione e nuovi media all’Università di Ferrara e autore di Oltre la società della comunicazione (Franco Angeli). E non è detto che non si possa approfondire anche se si studia con strumenti multimediali: per esempio, si può staccare la connessione quando si legge un libro sull’e-reader (slowreading.org).



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