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Lolita di Vladimir Nabokov. Dove l'arte è una norma

Creato il 18 maggio 2013 da Spaceoddity
Lolita di Vladimir Nabokov. Dove l'arte è una normaLolita (1955) è un libro completamente diverso da come me lo sarei aspettato. Direi addirittura che il capolavoro  di Vladimir Nabokov mette in berlina la sciatta vaghezza dei pregiudizi su un romanzo, la loro inconsistenza palese nel momento in cui ne affrontiamo finalmente e davvero la lettura.
La forma è quella della pubblica testimonianza resa dal suo protagonista, il Dr. Humbert Humbert. Questi, recluso in carcere, è afflitto da "ninferosi" (come lui definisce la passione per le ragazzine prepuberi), e stende delle memorie che intitola proprio Lolita o Le confessioni di un vedovo di razza bianca, che autorizza il suo avvocato a pubblicare solo dopo la morte dei due protagonisti. Humbert, caricatura del divo cinematografico afflitto da uno scalmanato narcisismo, è "un caso clinico" e si rivolge ora a un'immaginaria giuria di uomini del suo tempo, diffidenti e un po' malevoli, ora al lettore che non incontrerà mai, al lettore postumo, dal quale si aspetta empatia e cultura adeguate. Va da sé che, di cultura, il lettore deve averne. Metaromanzo - composto di prefazione del curatore (John Ray, JR., Ph.D.), romanzo vero e proprio e preziosa nota finale del 1956 dello stesso Nabokov - Lolita è un atto d'amore al virtuosismo narrativo di un autore russo emigrato negli U.S.A., un autore che si compiace di conoscere, di farsi vessillo e soprattutto di disprezzare tutta la tradizione culturale europea.
In particolare, il lettore noterà le continue frecciate all'immenso patrimonio francese dell'Ottocento e del primo Novecento, con quell'insistente scarnificazione dei poeti maledetti, ma soprattutto del grande romanzo moderno di Balzac, Flaubert e Proust. Lolita, funambolico e poliglotta gioco metaletterario, sa creare una rete di testi, di allusioni e di riferimenti, sventrando perfino il tic psicanalitico, la vera peste irriflessa del pubblico di massa (in specie cinematografico), atterrando a suon di sorprese e calembour il lettore che si credeva più preparato. Vladimir Nabokov fa un uso vertiginoso della lingua (e, dalle mie occhiate all'originale inglese, credo si debba ringraziare la traduttrice Giulia Arborio Mella per averci fatto gustare al meglio un simile intrico verbale) e scompone e ricompone a piacere, ridando loro nuova vita e giocandoci su con astutissima consapevolezza, tutte le attese narrative.
In questa favola che è un bazar di specchi, si deve inserire anche l'interpretazione sul "personaggio" di Lolita, processo ermeneutico che entra nel romanzo proprio grazie alla nota finale del suo autore. A chi diceva che Lolita fosse la giovanile, virginale America stuprata dalla vecchia Europa, Nabokov risponde che semmai è la lingua inglese a essere stata il balocco allegorico di un "pervertito". Lolita di Vladimir Nabokov. Dove l'arte è una norma Sta di fatto che, se il tema è per lo meno delicato, Lolita è un romanzo esilarante, illuminato dall'ironia sferzante del suo autore e pieno di ritmo. Libro on the road (e, credo non a caso, pubblicato solo quattro anni dopo il capolavoro autobiografico di Kerouac), Lolita è un romanzo vivacissimo, fatto di un inseguimento della bambina più capricciosa e maliarda che si possa immaginare.
È un atto d'amore, una continua protesta di devozione, da parte di un pazzo, di un indegno, verso una ragazzina che è protagonista indiscutibile - e non solo pretesto - di questa storia. Ciò scongiura le accuse dei moralisti, perché la storia che il narratore racconta è Lolita. Tutto il libro gira intorno alla "cattura" di questa realtà multiforme e immatura, di questo gorgo magnetico e cangiante che illumina di senso il suo inseguitore. La passione che lega Humbert Humbert all'inafferrabile ninfetta si potrà allora gustare senza le cautele guastatrici di chi è anche troppo preoccupato di discolpare in qualche modo Nabokov. Che, del resto, al riguardo è piuttosto esplicito:
Nessuno scrittore, in un paese libero, dovrebbe essere costretto a preoccuparsi dell'esatta linea di demarcazione tra il sensuale e l'erotico; è una cosa assurda; io posso solo ammirare, ma non emulare, l'occhio di chi mette in posa le belle, giovani mammifere che compaiono sulle riviste, scollate quanto basta per far contento l'intenditore, e accollate quanto basta per non scontentare il censore. Immagino che certi lettori trovino eccitante lo sfoggio di frasi murali di quei romanzi irrimediabilmente banali ed enormi, battuti a macchina con due dita da persone tese e mediocri, e definiti dai pennivendoli "vigorosi" e "incisivi". Ci sono anime miti che giudicherebbero Lolita insignificante perché non insegna loro nulla. Io non sono né un lettore di narrativa didattica, e, a dispetto delle affermazioni di John Ray, Lolila non si porta dietro nessuna morale. Per me un'opera narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estetica, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri stati dell'essere dove l'arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma.

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