I teteshki Long Distance Calling non si facevano vivi da due anni, ovvero da quando con “Avoid The Light” speravo di aver trovato i degni eredi dei Pelican, i quali dopo “Australasia” e “The Fire In Our Throats bla bla bla... “ si sono esposti al pubblico ludibrio con lavoretti che tacciare d'essere Orrendi è voler tenere la lingua educatamente a freno.
Questo eponimo terzo album del quintetto teteshko stenderebbe un orso tanto è inzuppato di luoghi comuni e di latitanza di pathos, quindi prevedibile e tedioso. Quello proposto è il solito copione che francamente conosco a memoria di lunghi brani post-rock tanto ligi ai dettami del genere e compiti che pure quando potrebbero spostarmi la scriminatura dei capelli dall'altra parte della testa con qualche bella sculacciata metallica pare che stiano accarezzando un cucciolo di foca appena nato col timore di fargli qualche graffietto.
Tutto ciò è insopportabile, lasciatemelo dire. Neanche la comparsa di John Bush, ex cantante degli Anthrax e uno che ti fa vibrare le guance come un phon gigante puntato in faccia con la sua vociona possente riesce a risollevare le sorti di questo dischetto: Middleville è una lunga power ballad che pare uscita dai Nickelback (con un po' più di gusto estetico, va detto).
Mi sa tanto che i Long Distance Calling siano degli eterni incompiuti. Ascoltandoli ho rivissuto quei patetici momenti nei ricevimenti scolastici quando la professoressa di turno, col suo sorriso maligno e ricco di soddisfazione informava mia madre – che poi si voltava verso me con un sorriso denso di rassegnazione – di avere un figlio «dalle grandi potenzialità ma che può fare molto di più». Ho pensato proprio a questo.
(2011, Superball Music)