In epitaffio a Bowie, pubblico il capitolo a lui dedicato sull'ancora inedito Long Playing, una storia del Rock, lato B: il ritorno del Rock. In uscita in qualche momento di questo 2016.
David Bowie fu l’artista che creò sé stesso. In una lunga meticolosa rincorsa, studiata in ogni dettaglio con la minuziosa applicazione dell’attore che si prepara alla parte che gli farà vincere l’oscar. Enfant prodige con un talento per la danza ed il canto, fu introdotto alla musica, il rock ’n’ roll ed il jazz, dal fratellastro schizofrenico Terry. Un incidente gli procurò una midriasi, cioè una dilatazione permanente, della pupilla sinistra, che gli lasciò in dono gli occhi colorati in due differenti sfumature di verde e di azzurro. Il primo strumento che imparò a suonare fu un sax di plastica ricevuto come regalo di compleanno. Nei ribollenti giorni del beat militò in una serie di gruppi dal nome di Konrads, King Bees, Manish Boys (sic). L’esperienza formativa determinante fu lo studio di mimo e danza, e d’avanguardia, del teatro dell’arte di Lindsay Kemp. Registrò nel 1967, la summer of love, un primo acerbo album ispirato al music hall, vaudeville e stile teatrale e neanche una traccia di psichedelia. Nel 1969 fece uscire, molto puntualmente pochi giorni prima dell’allunaggio degli astronauti americani, una ipnotica e dolcissima ballata intitolata Space Oddity, che canta dell’astronauta Major Tom perduto nello spazio. Il singolo fece il quinto posto della classifica inglese di vendite. Il disegno del puzzle stava diventando visibile.
Si concretizzò in una serie di alter ego, dal sessualmente ambiguo alieno pel di carota in collant sceso da marte, al pallido e sottile duca bianco sfatto di cocaina, all’intellettuale mitteleuropeo, sperimentatore di musica elettronica, fino alla pop star di sound & vision e oltre.
Ogni passo di questo cammino, ogni nota, canzone, disco, era, come i quadri del mentore Andy Warhol, un pezzo di pop art, di arte prodotta in serie per il consumo. Un’arte di plastica che ogni giorno doveva rinnovarsi, dimenticare il passato e sorprendere con il presente. Il futurismo in rock.
Nel suo cammino Bowie ebbe sempre l’intelligenza di appoggiarsi a grandi musicisti, in particolare ad una serie di chitarristi di talento, di cui il primo e più carismatico fu Mick Ronson. Il primo gruppo con Ronson si chiamava Tony Visconti Trio, con Tony al basso e John Cambridge alla batteria. La formazione fu vicina a diventare una vera band con il nome di The Hype, ma fu infine retrocessa da Bowie al ruolo di backin’ band, che durante la registrazione di The Man Who Sold The World sostituì il batterista con il più dotato Mick Woodmansey. Sulla copertina inglese del disco Bowie appare in abito femminile, disteso mollemente su un divano, in una fotografia decadente che si richiama vagamente i ritratti pre-raffaeliti, inaugurando l’importanza che l’immagine ed il travestimento avrebbero avuto in tutta la sua carriera. L’album, ancora grezzo, come un quasar proiettava nello spazio immagini fantascientifiche pesantemente truccate di rock duro. Di esso è rimasto la bellezza del brano omonimo, che decenni dopo avrebbe guadagnato una cover nel grunge dei Nirvana.
Gli ultimi elementi a incastrarsi furono il matrimonio con Angela, la scelta del nuovo manager Tony DeFries, l’etichetta discografica RCA ed un viaggio formativo in America, in cui Bowie assorbì l’ambiente artistico della Factory di Andy Warhol, la musica dei Velvet Underground al Max Kansas City, e l’immagine sul palco del cantante degli Stooges, Iggy Pop. Al ritorno a Londra, Bowie sapeva cosa voleva essere: un ibrido di Iggy ed i Velvet, fra i riff orecchiabili del glam ed un look ispirato a Marc Bolan, che a sua volta si ispirava a Syd Barrett dei Pink Floyd dell’UFO Club. Il cantante Z-Iggy era il protagonista di un rock show così insolito da non essere di questo mondo: la band prese il nome di The Spiders From Mars (i ragni di Marte), con il bassista Trevor Bolder al posto di Tony Visconti (che al momento si stava occupando a tempo pieno della carriera di Marc Bolan) e Ken Scott alla produzione.
A Londra il gruppo registrò Hunky Dory. Tre brani della seconda facciata, sia pur i meno significativi, erano dedicati ai mentori americani: Andy Warhol, Song for Bob Dylan e Queen Bitch (quest’ultima sui Velvet Underground). Ma la forza di Hunky Dory appoggiava su tre brani del lato A: la camaleontica Changes, il glam di Oh! You Pretty Things e la romantica ballata di Life on Mars, che si rifaceva alle atmosfere di Space Oddity.
In successivo The Rise And Fall Of Ziggy Stardust and His Spiders From Mars avrebbe costituito la sceneggiatura della storia della star più lucente della scena glam. L’arte applicata alla vita, appresa da Lindsay Kemp.
Il disco, trascinato dal singolo Starman, rese infine Bowie una star istantanea. Con una rossa abbagliante capigliatura, abbigliato in modo eccentrico e nonostante un’evidente ambiguità sessuale, o forse proprio in virtù di quella, Bowie era diventato il modello dei teenager di tutta la nazione. In quei giorni orfani dei Beatles, Bowie rappresentò il modello di tutta una generazione che non lo avrebbe mai dimenticato.
Attirato come una falena dalla luce dell’America, Bowie diede con gli Spiders un seguito istantaneo al capolavoro a New York e a Nashville, proclamando il nuovo disco, Aladdin Sane, come Ziggy in America. Il disco conteneva l’irresistibile singolo Jean Genie e si offriva nelle vetrine con la sua copertina più iconica, quella con il lampo multicolore che attraversa il volto contrito del cantante. Nel 1973 Bowie aveva cinque long playing contemporaneamente in classifica, fra dischi recenti e quelli ristampati in fretta e furia. Entrò in classifica persino un singolo del 1967, The Laughing Gnome. Ziggy Stardust fu l’artista di maggior successo quell’anno, compresi il nuovo singolo John I’m Only Dancing e i dischi che aveva trovato il tempo di produrre per Lou Reed (Transformer), Mott The Hoople (All The Young Dudes) e Iggy Pop (Raw Power).
Il disco dell’ascesa e la caduta di Ziggy Stardust si chiudeva significativamente con la canzone Rock’n’roll Suicide. Un suicidio messo in atto il 3 luglio del 1973 al termine dell’ultima data dell’Alladin Sane Tour, all’Hammersmith Odeon di Londra. Rock’n’roll Suicide fu introdotta dalle parole: «Questo non è solo l’ultimo concerto del tour, ma è anche il mio ultimo concerto. Grazie a tutti». Quanto Bowie fosse entrato nei panni di Ziggy lo descrive la circostanza che non avesse informato del proposito neanche la band, che fu presa alla sprovvista dall’annuncio. In realtà Ziggy non aveva del tutto esaurito la propria parabola: qualche giorno dopo Bowie portò gli Spiders in Francia all’Honky Chateau (lo stesso in cui usava registrare Elton John) per un encore, Pin Ups, un omaggio alle canzoni della Swingin’ London, quelle preferite di Bowie degli anni fra il ’64 ed il ’67. Fu la miglior antologia di british beat che si potesse concepire, e per me che ero un teen ager fu un album devastante, che forgiò per sempre le mie orecchie. Il giro di chitarra elettrica che apre I Wish You Would era la cosa più eccitante che avessi ascoltato fino a quel momento. Le cover di Rosalyn dei Pretty Things, Here Comes The Night dei Them di Van Morrison, See Emily Play dei Pink Floyd di Syd Barrett, Friday On My Mind degli Easybeats diventarono il mio standard di giudizio del rock. Il fascino del disco era esaltato dall’affascinante copertina, una fotografia di Ziggy con la modella Twiggy, che era stata scattata in origine per una copertina sulla rivista Vogue, che poi non si realizzò.
Con Ziggy suicida, Bowie si mise al lavoro sull’alter ego del 1974. Traferitosi in America, prima a New York e poi a Los Angeles, divenne il Thin White Duke. In un primo momento scrisse diverse canzoni per una messa in scena del 1984 di Orwell, andando a frugare fra le atmosfere cupe e visionarie di The Man Who Sold The World. Quando il progetto scemò, le canzoni riempirono metà del nuovo disco, quel Diamond Dogs la cui copertina era opera del Guy Peellaert di Rock Dreams, che negli stessi giorni era dipingeva la copertina di It’s Only Rock’n’Roll degli Stones (e molti anni più tardi avrebbe realizzato con meno clamore quella di Horse Of A Different Colour di Willy DeVille). Era successo che Jagger si era vantato con Bowie della sua nuova copertina, e immediatamente Bowie ne volle una uguale. Jagger commentò: «Non mostrate mai un paio di scarpe nuove a Bowie».
Anche il nuovo hit, il singolo Rebel Rebel, ispirato al giro di chitarra ritmica di Keith Richards, era un omaggio agli Stones. D’altra parte It’s Only Rock’n’Roll dei Rolling Stones era stato registrato da Jagger proprio con Bowie (e Ron Wood, che allora era il chitarrista dei Faces).
Nel frattempo un cambiamento epocale avveniva nel mondo della musica pop: nelle discoteche cominciava a suonare quella variazione dance del soul che sarebbe stata battezzata disco music e che avrebbe estromesso le canzoni rock. I primi hit da discoteca ebbero una diffusione virale: Love’s Theme di Barry White, TSOP (The Sound Of Philadelphia) dei MFSB (Mother Father Sister and Brother), Kung Fu Fighting di Carl Douglas, Rock The Boat di George McCrae, Never Can Say Goodbye / Reach Out (I’ll Be There) di Gloria Gaynor e That’s the Way (I Like It) dei KC and the Sunshine Band. Bowie afferrò i ritmi disco, ed in particolare il sound di Philadelphia. In quella direzione, per cui coniò la definizione di plastic soul, puntò il Thin White Duke. Sul palco del Diamond Dogs Tour una formazione di undici musicisti comprendeva due coriste e una sezione fiati, percussioni, piano elettrico e sintetizzatore Moog. Sul palco David, diafano sotto l’effetto della cocaina, in un completo bianco, trasformava i brani rock in soul, da 1984 a Rebel Rebel, Changes, The Width Of A Circle, fino a una cover di Knock On Wood di Eddie Floyd, presa in prestito dal repertorio del soul di Memphis. Lo show fu immortalato nel doppio David Live (At The Tower Philadelphia), che raggiunse il numero 2 delle classifiche americane. Bowie poteva anche attraversare in quei giorni qualche grosso problema personale, ma quelli furono i suoi glory days.
Sempre a Philadelphia, ai Sigma Studios, decise di registrare il disco successivo, che per non lasciare nulla di intentato volle intitolare Young Americans. Un nuovo taglio di capelli gli conferiva un aspetto modernamente dandy. Tornò a collaborare con il produttore Tony Visconti, e come turnisti volle musicisti neri. Arrivò il portoricano Carlos Alomar, che era il chitarrista fisso dell’Apollo Theatre di Harlem, divenuto amico di David dopo averlo invitato ad assistere agli show di Temptations e Marvin Gaye. Sarebbe rimasto al suo fianco per anni, con il grado di chitarrista di fiducia in sostituzione di Ronson. Young Americans fu registrato con il deliberato obiettivo di fare di Bowie una star in America. Plastic Soul, fu la definizione di Bowie del suo nuovo genere. Fu completato agli Electric Lady Studios di New York, dove fece un’improvvisata John Lennon, che nella big apple stava registrando il travagliato disco Rock’n’Roll. Dalla session fra i due scaturì il singolo Fame, che divenne il primo numero 1 di Bowie nella classifica di Billboard. In quell’occasione Tony Visconti fece la conoscenza della compagna del momento di Lennon, May Pang, e se ne innamorò al punto di sposarla. Il puntuale commento di Bowie fu: «Non mostrate mai la nuova fidanzata a Tony Visconti».
Dopo il disco, Bowie fu coinvolto come attore protagonista nel film L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg, largamente ispirato a Ziggy Stardust. Dopo di che, al nadir della sua dipendenza da cocaina, Bowie entrò in studio a Los Angeles per registrare un nuovo disco americano, Station To Station, accompagnato da Carlos Alomar alla chitarra, Dennis Davis alla batteria e George Murray al basso, a cui si aggiungeva il piano di Roy Bittan della E Street Band. Il singolo Golden Years, che cantava come la parodia di Elvis Presley, rimandava di nuovo al plastic soul, mentre le atmosfere dei lunghi brani fantascientifici - tre per facciata, della durata fra i sei ed i dieci minuti - testimoniavano la voglia di sperimentare verso un rock futuribile. L’attacco della lunga Station To Station fu d’ispirazione ai Kraftwerk per il loro maggior successo, Trans Europe Express. Entrambi i lati del vinile si chiudevano con una ballata lenta d’atmosfera: sul lato A, Word On A Wing, sul B una cover di Wild Is The Wind, recuperato dalla colonna sonora di un film drammatico del ’57 con Anthony Queen e Anna Magnani. Il tour che ne seguì è testimoniato dall’energico show registrato in marzo per Live Nassau Coliseum ’76, dove ai brani del nuovo album si aggiungevano Suffragette City e Waiting For The Man e gli hit di Fame, Life On Mars?, Rebel Rebel, The Jean Genie.
Station To Station segnò la fine sia del soggiorno americano di Bowie che del matrimonio con Angela. Bowie si ritirò allora in Svizzera, sul lago di Ginevra, come avevano fatto prima di lui molte rock star britanniche, e cominciò a mettere assieme i pezzi del nuovo personaggio, l’intellettuale mitteleuropeo che si occupa di arte figurativa. Come un attore entrò nella parte al punto da flirtare con la cinquantunenne Oona, ex moglie di Charlie Chaplin (Bowie andava per i trenta).
Alla fine dell’anno decise di darsi una ripulita dalla droga e si spostò a Berlino assieme a Brian Eno e Iggy Pop. Nella storica capitale tedesca ritrovò il piacere di muoversi in città come un anonimo perfetto sconosciuto, da nessuno riconosciuto come una star. In quei due anni produsse una parte della sua migliore musica. Iniziò componendo con Iggy le canzoni per l’album che avrebbe dovuto rendere finalmente famoso il musicista di Detroit: nonostante il suo lavoro seminale con gli Stooges, per il pubblico Iggy Pop era sempre un illustre sconosciuto. Si avvertivano le vibrazioni del big bang del punk, dei Sex Pistols e della new wave, ma Bowie e Pop sembravano addirittura precedere quell’ondata. Sia The Idiot, il disco di Iggy, che Low, quello di Bowie, furono registrati fra il ’76, al Château d’Hérouville in Francia, ed il ’77, in Germania a Monaco e Berlino. Per la maggior parte dei brani Bowie scrisse le musiche mentre Iggy si occupava dei testi. The Idiot fu un lavoro straordinario, rock post moderno fortemente basato sui sintetizzatori (suonati dallo stesso Bowie), che si discostava dallo stile di Iggy Pop. Fu terminato prima di Low, ma l’uscita ne fu posposta. The Idiot centrò l’obiettivo di rendere famoso il piccolo punk di Detroit. Ma Low fu persino più sorprendente. Il disco suonava del tutto nuovo, non solo per i parametri di Bowie ma per quelli di tutta la scena musicale. Disco d’avanguardia dal suono minimale, al tempo stesso ritmato e orecchiabile, è diviso nettamente fra le due facciate; la prima comprende sette schegge di canzoni, essenziali ed audaci mattoni ritmici e melodici che si incastrano, prendono forma e si spezzano prima che l’ascoltatore se ne possa rendere conto. Una musica futuribile da ascoltare incessantemente in loop, ispirata alla “musica discreta” di Brian Eno. Il secondo lato è strumentale, nato in origine dal progetto di produrre una colonna sonora per il film di Nicolas Roeg (film che ancora una volta è rappresentato dall’immagine di copertina). Musica elettronica vicina alle suggestioni minimaliste del musicista classico Philip Glass (che di rimando dedicò a Low un proprio opera). Nonostante fosse un disco sperimentale, Low fu premiato dal successo, arrivando al secondo posto della classifica inglese e undicesimo in America. Soprattutto servì a ritrovare a Bowie i favori del pubblico rock, conferendo definitivamente all’autore fama di artista poliedrico e sofisticato.
Per Low, Bowie non andò in tour ma si limitò ad accompagnare in concerto Iggy Pop, suonando le tastiere elettroniche in posizione defilata sul lato del palco, fuori dalla luce dei riflettori. Nell’aprile del ’77 Iggy e Bowie si rimisero al lavoro per registrare Lust For Life a Berlino. La formazione comprendeva Tony Sales e Hunt Sales (i futuri Tin Machine) alla ritmica, oltre a Carlos Alomar e Ricky Gardiner alle chitarre. Il disco fu completato in soli otto giorni, e questa volta Iggy ebbe maggior spazio per esprimersi, con un suono più vicino alla durezza elettrica del rock degli Stooges. Lust For Life era un tipico hard rock e The Passenger, il capolavoro del disco, una ballata elettrica (ispirata ad una poesia di Jim Morrison) sostenuta da un indovinato giro di chitarra.
Appena risolto il disco di Iggy Pop, e dopo un modesto live (intitolato TV Eye) registrato volutamente con una bassa qualità low-fi da bootleg, il sodalizio Pop Bowie si sciolse. David Bowie convocò una volta di più Eno e Tony Visconti per registrare il seguito di Low in una spaziosa sala da ballo affittata nelle vicinanze del muro di Berlino. Il disco fu registrato di getto, con l’apporto di un assolo della chitarra elettrica di Robert Fripp. Come il precedente era diviso sulle due distinte facciate, una di canzoni e una strumentale. Fra le canzoni la title track “Heroes” divenne il brano più celebre fra quelli scritti da Bowie, un emozionante crescendo su una coppia che si bacia sotto il muro. La seconda facciata è un cupo strumentale del tessuto di una colonna sonora, che si chiude però a sorpresa con un divertente brano dance di Carlos Alomar intitolato The Secret Life Of Arabia.
C’è un ulteriore lavoro, registrato con Eno e intitolato Lodger, a cui ci si riferisce abitualmente come al terzo della trilogia berlinese, nonostante fu registrato a Montreux in Svizzera, uno dei posti più noiosi al mondo quando non va a fuoco il casinò. Sul disco suona alla chitarra Adrian Belew, che Bowie aveva scoperto nella band del Frank Zappa di Sheik Yerbouti e che in futuro avrebbe transitato nei Talkin’ Heads e nei Discipline di Robert Fripp. Adrian ebbe un ruolo minore nelle registrazioni, dovendosi limitare a registrare assoli su brani che ascoltava per la prima volta, ma racconta che in studio non sembrava scaturire una grande creatività. Il disco è decisamente meno ispirato degli altri due (quattro se si considerano quelli con Iggy Pop). Nel frattempo la RCA dava alle stampe un nuovo doppio dal vivo, intitolato Stage, registrato nel 1978 durante la tournée americana di Heroes.
Scary Monsters apriva gli anni ’80 recuperando una volta di più il vecchio compagno Tony Visconti. Registrato a New York, piacque alla critica musicale ed ebbe un buon riscontro commerciale, grazie al singolo Ashes To Ashes. In realtà il disco testimonia un appannarsi della creatività di Bowie, che prova a far proprio il suono dandy, synthpop ed elegante del momento. Come scrisse acutamente il biografo Nicholas Pegg, in quel decennio Bowie cercò più di entrare in competizione con i Duran Duran che con gli Smiths. La sua Fashion divenne una specie di inno nazionale della generazione New Romantics di Spandau Ballet, Boy George, Japan, Adam and the Ants, Ultravox.
Di ottima stoffa era fatto il disco del 1983, Let’s Dance, per quanto fosse nuovamente ispirato alla disco music e realizzato deliberatamente per avere successo nel giro delle discoteche. Bowie affidò l’incarico a Nile Rodgers, che allora era il produttore di maggior successo di quella scena, con Le Freak degli Chic, We Are The Family di Sister Sledge ed Upside Down di Diana Ross. Rodgers approcciò il disco con un forte rispetto per il lato artistico di Bowie e fece un ottimo lavoro a livello di suono. Reclutò musicisti neri del suo giro e creò un suono pulito basato su un basso e una batteria molto definiti. Una buona idea fu quella di reclutare l’allora sconosciuto chitarrista texano Stevie Ray Vaughan, che incise degli assolo superlativi che in alcuni casi, come in Cat People, sostengono totalmente l’architettura della canzone.
Bowie si presentò con poco materiale, ma scelse canzoni di grande impatto: China Girl veniva dal disco con Iggy Pop, ma fu reinventata da Bowie. Cat People proveniva dalla colonna sonora del film omonimo, con Nastassja Kinski e Malcolm McDowell, ed era stata scritta assieme a George Moroder. Criminal World dimostra una volta di più il buon gusto di Bowie nello scegliere materiale oscuro ma di ottima qualità, come la canzone di Duncan Browne e Peter Godwin proveniente dal capolavoro segreto dei Metro, una band romantica durata (nella formazione efficace) lo spazio di un solo disco. È un peccato che Bowie non abbia deciso di fare per Duncan Browne (che sarebbe scomparso nel ’93) quello che aveva fatto per Reed, Iggy Pop e Mott the Hoople.
Ma il Bowie degli anni ottanta navigava a vista. Let’s Dance non fu bissato da Tonight, che a parte la canzone omonima, recuperata sempre da Iggy Pop e cantata in un bel duetto con Tina Turner, era costituito da una melassa di filler, fra cui una orribile cover dei Beach Boys. Il Bowie new-romantic raggiunse il capolinea con Never Let Me Down, l’album che ispirò il Glass Spider Tour, uno show con luci, ballerine (fra cui la nuova fidanzata Melissa Hurley) e un ragno gigante. Era il 1987: dieci anni prima Bowie era l’intellettuale di Low e Heroes, ora una pop star in competizione con Madonna.
Forse la cosa gli diede da pensare, o forse lo fecero le recensioni (inglesi, perché agli americani lo spettacolo luci e colori era piaciuto). O forse fu il nuovo chitarrista Reeves Gabrels, che nonostante la scarsa notorietà, quando fu contattato da Bowie gli disse chiaro e tondo di smettere di recitarsi addosso. In ogni caso Bowie si rese conto che stava percorrendo la china discendente della propria carriera. Voleva finire a cantare i suoi greatest hits a Las Vegas?
Fu Gabrels ad aiutare Bowie ad affrontare gli anni novanta. Ad un party incontrò i fratelli Sales, che avevano suonato la sezione ritmica in Lust For Life, e li invitò al progetto. Fino a quel momento avrebbe dovuto essere il suo nuovo disco, ma nel corso delle prove divenne evidente che nessuno dei tre nuovi musicisti nutriva un senso di sudditanza nei suoi confronti. Gabrels non si faceva problemi a sostenere le proprie idee, e meno che mai i due texani sembravano intenzionati ad assecondare il leader. In qualche modo i quattro musicisti sembravano suonare alla pari, senza complessi di leadership. Prese così forma l’idea di registrare non un nuovo disco di David Bowie, ma il disco di un gruppo, che dal titolo di una delle canzoni prese il nome di Tin Machine.
Camaleontico come sempre, David inventò un look per il nuovo ruolo, facendosi crescere una rada barbetta che lo aiutasse a rendersi anonimo fra i quattro. L’album non voleva essere autocompiacente né commerciale. Fu registrato in diretta, con una sezione ritmica hard accompagnata solo dal suono delle chitarre elettriche e dalla voce di Bowie. Il gruppo scrisse una gran quantità di canzoni nude e crude, di cui 14 finirono sull’album, alcune delle quali firmate da tutti e quattro, alle quali si aggiunse una cover di Lennon. Alla fine mancò un singolo che facesse da richiamo, anche se alcune canzoni emergevano più di altre, come Under The Gods. La musica era l’antitesi del suono sintetico di moda nelle classifiche degli anni ottanta e sembrava far ritorno ai giorni del punk, così che il disco fu accolto inizialmente da un tiepido successo, in Inghilterra arrivò al terzo posto delle classifiche, ed i recensori inizialmente scrissero cose buone. Ma alla fine il pubblico di Bowie non accettò il Bowie con la barbetta e l’idea di un gruppo e non si innamorò dei Tin Machine.
Pur suonando materiale non commerciale, probabilmente Bowie si aspettava che la sua nuova creatura sfondasse in classifica al pari della trilogia berlinese del decennio precedente. Così fu proprio lui a raffreddarsi per primo di fronte alla mancanza di successo. Decise di compiere un bagno di folla con il tour solista di Sound+Vision, che accompagnava la ristampa del suo catalogo da parte della EMI. Se aveva creato i Tin Machine per non suonare più i greatest hits, trovò un’ottima scusa per un big tour in contraddizione con il suo principio di non guardarsi mai alle spalle: li avrebbe suonati per un’ultima volta, per liberarsene e dunque archiviarli per sempre. Creò un numero di telefono che i fan potevano chiamare per proporre le canzoni della scaletta: i pezzi più gettonati sarebbero stati scelti. Girò così il mondo per ben sette mesi con una band, che comprendeva Adrian Belew, a godersi la passione dei fan.
Quando ne emerse, ritornò ai Tin Machine senza crederci ormai più di tanto. La EMI non ne voleva addirittura sapere di un nuovo disco dei Tin Machine, preferendo puntare su qualche cosa di più edibile. Per risposta Bowie trovò una nuova casa discografica nella piccola etichetta Victory. Il secondo disco del quartetto fu registrato a Sidney e le differenze con il precedente sono evidenti: nonostante lo spazio dedicato agli altri membri (Hunt Sales è voce solista ed autore in due brani quasi hard) il suono tende a virare nel territorio Bowie, ricavando uno spazio ai sintetizzatori ed a ritmi compromessi con l’elettronica. In una cover la band si avventurava addirittura nel territorio minato di If There Is Something, in un difficile confronto con il brano più innovativo dei Roxy Music. Anche questa volta non c’erano hit, e tanto il pubblico di Sound+Vision che i critici non ne vollero sapere della nuova band, e al disco non fecero neppure toccare le classifiche. Era troppo per Bowie, che dopo un live frettoloso che non catturava l’energia della band, lasciò perdere, ammettendo di non essere, dopo tutto, un musicista da gruppo.
Così gli anni novanta lo videro tornare all’usato suono dance dei club e delle discoteche. Del resto fin dai tempi di Ziggy Stardust aveva suonato musica dance, ma con una differenza: che mentre negli anni settanta Bowie dettava la moda, nei novanta la subiva. Black Tie White Noise piacque ai critici: con un aiuto più misurato di Nile Rodgers, aveva messo assieme un disco hip-hop lucido e ben suonato. In alcuni episodi più sperimentali e jazzati (con il supporto della tromba del jazzista Lester Bowie) il disco si alzava dalla media, per esempio nello strumentale The Wedding, usato per celebrare il felice matrimonio con Imam - il colpo di fulmine della sua vita sentimentale. O nello sperimentale Pallas Athena ed in Looking For Lester. Don’t Let Me Down And Down ha un bell’assolo di Lester Bowie. I Know It’s Gonna Happen Someday è una lirica ballata di Morrissey, un tardivo riconoscimento per la rivoluzione degli Smith. Jump They Say era un energico hit da discoteca, dedicato alla memoria del fratello Terry, che aiutò a trascinare il disco al primo posto della classifica inglese.
Per il succcessivo Outside, registrato di nuovo nella sonnecchiosa Montreux, recuperò Eno per il progetto di un cupo noir sintetico su una storia scritta da Bowie, Il Diario di Nathan Adler, su un fantascientifico ispettore criminale, il tema dell’omicidio rituale come forma d’arte.
Earthling rincorreva la nuova generazione, con brani da discoteca hip-hop, jungle, “drum & bass”, mentre al contrario Hours chiudeva il millennio cercando di recuperare il vecchio Hunky Dory, senza riuscire a recuperarne la tensione.
Nel 2001 Bowie dichiarò di avere in uscita un disco intitolato Toy, composto da canzoni scritte all’inizio della carriera e arrangiate con l’aiuto del violino di Lisa Germano, ma la EMI gli fece l’affronto di bocciarlo. Alcuni dei brani furono registrati nuovamente per il successivo Heathen, che recuperava grazie a Tony Visconti un suono solido à la Heroes, ma senza canzoni altrettanto buone.
Dopo un ultimo tentativo, Reality, il dischetto strano e stralunato del 2003, Bowie si ritirò infine dalla scena musicale, apparentemente per sempre, per fare il marito, il padre (di Alexandria Zahra, figlia di Iman) e anche per curarsi qualche acciacco di salute legato a troppe sigarette.
Il gran finale era al di la dell’immaginabile.
Un decennio dopo, nel giorno del suo sessantaseiesimo compleanno (8 gennaio 2013), un mondo sonnecchioso dimentico della musica rock, ricevette a sorpresa l’annuncio che era pronto un nuovo album, con il titolo di The Next Day (il giorno dopo), registrato in gran segreto con Tony Visconti. Quando il disco uscì, l’attesa si era fatta tale da esordire al primo posto della classifica inglese e al secondo di quella americana. Era un album doppio di studio, l’ultimo di un glorioso format che in passato aveva rappresentato lo zenit per molti artisti: Dylan (Blonde on Blonde), Beatles (White Album), Hendrix (Electric Ladyland), Stones (Exile), Clapton (Derek and the Dominos), Springsteen (The River), Clash (London Calling). The Next Day era un album di canzoni, tante e belle. Canzoni oblique, aliene, differenti nelle melodie e negli arrangiamenti, che richiamavano i dischi berlinesi Low ed Heroes (rievocato nel remake della copertina, modificata solo dall’apposizione di uno sticker con il nuovo titolo). Del nuovo disco, Heroes era lo stampo industriale fumante. Non c’era Brian Eno, ma in ogni brano il suo fantasma faceva da “convitato in pietra”, il grande assente-presente.
Quello che Bowie nascose al suo pubblico ed al mondo, è che dopo il disco gli fu diagnosticata una malattia incurabile. Reagì da artista, preparando, all’oscuro di tutti, il gran finale. Aveva sempre desiderato lavorare con la jazzista Maria Schneider, e assieme alla sua Orchestra scrisse e registrò un pezzo musicalmente agli antipodi del minimalismo asciutto di The Next Day: sette minuti di jazz orchestrale e dissonante di sapore vagamente art deco, intitolato Sue (Or in a Season of Crime), che avrebbe potuto essere la colonna sonora di un film noir.
Nell’ambiente del nuovo jazz newyorchese, con il gruppo del sassofonista Donny McCaslin indicatole dalla Schneider, si mise al lavoro per registrare Blackstar, la Stella Nera. Per noi era il disco nuovo di Bowie, per lui l’ultimo, con cui voleva al tempo stesso realizzare un capolavoro, e scrivere un epitaffio, un messaggio di addio. Che era evidente nei toni cupi del singolo di dieci minuti, l’omonimo Blackstar, e nel video che lo accompagna: una fiaba fantascientifica, con il Major Tom di Space Oddity ancora in tuta spaziale, morto su un lontano e sconosciuto pianeta dove gli alieni hanno fattezze umane ma la coda di gatto; e il suo teschio è intarsiato di pietre preziose, mentre il cantante, magro e consunto, è bendato, con due bottoni al posto degli occhi. La musica è straniante, aliena, inedita, eppure al tempo stesso inconfondibilmente Bowiana.
Ancora più esplicito fu il secondo singolo, Lazarus, dal nome di quel Lazzaro che nella Bibbia era resuscitato da Gesù. Un video di addio e una canzone bellissima, una ballata fra sassofoni, variazioni e dissonanze che non compromettono la fruibilità dell’ascolto. L’album uscì nel giorno del sessantanovesimo compleanno dell’artista, l’8 gennaio 2016, e ricevette un’accoglienza di cui si era persa la memoria dai giorni della beatlemania.
Io scrissi che per la sua carica di innovazione si trattava del primo disco del XXI secolo (nonostante fosse iniziato da ormai sedici anni) e che era un disco seminale, che auspicavo ispirasse all’emulazione qualche giovane talento. E che ero impaziente di ascoltarne il seguito, ed il seguito ancora. Invece si trattava del Gran Finale.
Due giorni dopo, con un sincronismo spiazzante (e improbabile), l’artista venuto da Marte lasciava il nostro mondo, compiendo il percorso artistico prefigurato da Ziggy Stardust e dall’uomo che cadde sulla terra. Il rise and fall di David Bowie, un cerchio completo se si chiude fra Space Oddity e Blackstar, la stessa canzone dopo un raggio di dieci lustri.
Una uscita di scena senza precedenti, che piega alla sua teatralità persino la morte. L’arte applicata alla vita fino alla morte.
Il clamore scatenato dal nuovo disco divenne un tutt’uno con l’ondata di lutto collettivo di due o tre generazioni di ex ragazzi, mano a mano che increduli ne apprendevano la notizia. Un senso di appartenenza collettivo che non si provava dal giorno della morte di John Lennon.
Per chi era un teenager negli anni settanta, nessun artista è stato intimamente specchio del proprio intimo quanto David Bowie.