Torino, Spazio 211.
È tempo di reunion da un po’ di anni ormai, si sa. Sono passate tante band dalle nostre parti: quelle che hanno potuto sfoderare la formazione originale (Slint), altre che loro malgrado hanno perso pezzi per strada (Silver Apples) e quelle che in fondo non si sono mai sciolte del tutto (Suicide). Poi ci sono state quelle che, pur di riesumare la gloria di una volta (Kyuss), non si sono fatte molti problemi a coinvolgere altri musicisti. Considerazioni retoriche, forse, ma che servono a far mente locale su un fenomeno, il sempre amato rock and roll che, nonostante abbia tanti anni sulle spalle, cerca di conservarsi nel modo migliore possibile – quando ci riesce – anche se campa di espedienti e magari è visibilmente acciaccato. I Loop fanno parte della prima categoria, più o meno, e dimostrano in questo tour di saper tenere in mano le redini della situazione con efficienza e approccio sincero. Tengono a precisare che questa manciata di date non è preludio a nuove pubblicazioni, d’altronde Hampson e soci sono impegnati in altri progetti musicali, e va bene cosi.
Quello di Torino è stato il terzo dei quattro live italiani dei Loop (della data romana si sono lette cose strabilianti): allo Spazio 211 stranamente non s’è registrato il pienone, come con un po’ d’ingenuità m’aspettavo. Tant’è, un po’ dopo le undici i quattro salgono sul palco e attaccano con nonchalance il loro set: pulito, metronomico quasi, dai volumi piuttosto poderosi ma meno impossibili di quanto immaginassi (all’entrata si vendevano tappi per le orecchie), continua per un’ora e dieci senza che nessuno perda un colpo. La ricetta, per chi apprezza i loro dischi, è la solita: un terzo di Stooges (le chitarre soniche e possenti), una parte di Velvet Underground (il filo del discorso), un’ultima di shoegaze à la My Bloody Valentine (quell’incedere felino e sornione)… e il gioco è fatto. La differenza la fa però anche la voce di Hampson, che a tratti sembra uno Ian Curtis che ha superato la fase problematica e s’è messo a fare una vita normale, quindi sa come e quando smettere di pensare alla fine dei suoi giorni. Congetture a parte, il concerto va avanti come un treno in corsa: il tutto risulta quindi sottilmente devastante (passatemi l’ossimoro) e – tra una “Soundhead” in apertura e una “Arc-Lite” in gran spolvero – abbiamo la conferma di assistere all’esibizione di una delle migliori proposte sfornate dal crinale che unisce gli Ottanta coi Novanta. Nel breve bis di chiusura ci omaggiano con “Thief Of Fire” del Pop Group, qui chiaramente più tellurica e abrasiva rispetto a quella nervosa e tribale di Mark Stewart e soci. Morale della favola: la classe non è acqua, signori: un sacco di band del momento dovrebbero mangiarne, di polvere, prima di raggiungerli. Senza voler mancare di rispetto a nessuno, qui siamo su un altro pianeta, e i Loop rimarranno sempre di un grado superiore.
Concerto dell’anno.
Ringraziamo Francesco Rapone per la foto.
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