Magazine Cinema
di: R. Johnson
con: B. Willis, J. Gordon-Levitt, E. Blunt, J. Daniels, P. Dano
- USA 2012 -
120'
Magagna e zavorra - spesso più grossa degli universi sfasati che vorrebbe tratteggiare - di tante opere centrate sui cosiddetti "paradossi temporali" (a
ben vedere, oramai, costola tra le più robuste del già prestante torace del cinema fantastico) e' l'incapacità, a volte dolosa, a volte solo tale, d'indirizzarle entro una griglia coerente, per quanto ambigua e scivolosa sia
la sostanza che intende maneggiare o, che e' lo stesso, di costruirgliene una
attorno abbastanza resistente da rintuzzare gli assalti delle incongruenze e i
sospetti circa forzature tanto "estreme" nelle intenzioni quanto calcolate al
millimetro nei fatti e in realtà solo velleitarie. Nella maggior parte dei casi
il meccanismo ammannitoci soffre di scarsa calibratura e dopo un po' gira a
vuoto; in altri, all'esatto contrario, viene banalmente reiterato come
espediente (sul serio si può parlare di "loop") nell'illusione che la
riproposizione generi di per se' - tipo cane di Pavlov - la meraviglia.
Prima freccia all'arco di questo "Looper" di Rian Johnson - e lo stesso
personaggio incarnato da Bruce Willis, Joe, s'incarica di sottolinearlo ("Se
parliamo troppo di viaggi nel tempo, finiamo a fare diagrammi con le cannucce")
- e' proprio mettere, per così dire, le mani avanti sin dall'inizio, giocare a
carte scoperte ed esaurire la trovata "paradossale" in una semplice cornice
narrativa che in poche e accorte mosse salda l'ipotesi fantascientifica alla
concretezza brutale e "matematica" delle crime stories, ammicca con riguardo
all'essenzialita dei B-movies, nobilitando l'insieme con tocchi di malinconia e
sospensioni agganciate a melodie struggenti e a luci diurne morbide quanto
contrastate.
In un futuro nemmeno troppo lontano (2074), i viaggi nel tempo sono cosa
fatta. Con la stessa rapidità con cui la tecnologia e' disponibile e funziona,
pero', vengono messi al bando per via delle alterazioni imprevedibili che essi
possono comportare nella trama delle vite degli uomini. Un'occasione del genere
non può passare inosservata agli occhi di chi fa del controllo, dello
sfruttamento ed eventualmente della distruzione delle vite altrui la ragione
della propria prosperità e quindi della propria esistenza, a dire il Crimine
Organizzato. Infatti, esso se ne appropria e taratili sul trentennio precedente
(2044, il "presente" del film), ci spedisce impacchettati con tanto di
ricompensa incorporata (sottili lingotti d'argento) coloro di cui si vuole
disfare senza lasciare traccia. Ad aspettarli, "di qua", killer prezzolati, i
"looper" del titolo, armati di una spingarda futuribile, che si limitano a
giustiziarli, accoppandoli ai margini di vasti campi coltivati non appena i
malcapitati si materializzano nel continuum temporale. Le cose filano in una
sorta di supercorporazione trans-temporale della morte fino al giorno che dal
futuro ti rispediscono indietro te stesso perché il misterioso boss supremo
detto "Lo Sciamano" sta "chiudendo tutti i loop" e il rapporto che lega sicario
e vittima diventa sempre più stretto e letale.
In un mondo ibrido - colto nella lunga transizione che precede la
trasformazione radicale verso una società compiutamente tecnologica abitata più
da individui che da un senso convinto di comunità e che neanche tanto alla
larga tradisce echi dell'attualità che ben conosciamo - un mondo degradato e
sporco, in cui la delinquenza assurta a rango di para-governo detta le regole
per tutti (Jeff Daniels, subdolo e sornione, sorta di plenipotenziario del
crimine discetta in vestaglia, barba lunga e bicchiere di whisky, riguardo il
suo ruolo di mastino dell'Organizzazione a cui nulla può essere nascosto), la
miseria appare per le masse una condizione di nuovo ineluttabile e per i pochi
rimanenti l'orizzonte vitale si riduce ad un po' di promiscuità e alla
sempiterna dipendenza chimica, i caratteri motori del film si muovono e
soffrono su coordinate più psicologiche che filosofiche o pseudo scientifiche -
ecco l'altro merito di Johnson - che mano mano spostano l'asse della narrazione
dalla cronologia in apparenza senza scampo di un ingranaggio implacabile sempre
al lavoro, al tempo interiore dei personaggi, scoprendo oltre l'ovvia relazione
che li lega (Gordon-Levitt e Willis sono la stessa persona separata dai
fatidici trent'anni ma si approssimano e si scontrano quasi in un simil
freudiano contrasto generazionale padre/figlio), una comune matrice di assenze,
di silenzi affettivi, di appuntamenti mancati (Gordon-Levitt/Willis
ricorda/rimpiange con toni diversi ma ugualmente tormentati la madre; la Blunt
medita a voce alta sulla futilità dei suoi trascorsi giovanili e sulle sue
mancanze di genitrice; più in generale si insinua una contrapposizione su scala
planetaria tra madri distratte, chiuse in un muto dolore, poco presenti e figli
- in particolare maschi - lasciati a se stessi, prematuramente rancorosi,
stanchi, disillusi), nonché un impreciso quanto inconsapevole desiderio di
"spezzare il cerchio" (loop) per aprirlo verso direzioni più promettenti.
La pellicola funziona meno quando l'alternanza di riflessione esistenziale e
incursioni tipiche nel genere (inseguimenti, sparatorie, utilizzo degli effetti
speciali) frammentano il racconto, trasmettendo una sensazione d'impasse, di
scarsa fluidità, come se nell'indecisione finisse per prevalere l'incertezza
fra un taglio una volta per tutte intimista (con tutti i rischi del caso, e'
ovvio) e un adeguamento a canoni più sbrigativi e consolidati (come se
anch'essi, e' bene ribadirlo, non implicassero un certo numero di incognite,
vedi il ricorso disinvolto al ralenti e gli insistiti punti di vista
eccentrici). Si aggiunga l'introduzione di un elemento catalizzatore delle fila
del racconto che forza, e di molto, l'equilibrio emotivo dell'opera a favore di
una prevedibile resa dei conti finale e si comprende come il continuo rilancio
su terreni decisivi come il sentimento e la passione da preservare oltre il
tempo, la chance di cambiare il futuro, l'inestricabilita ' dei termini "amore"
e "sacrificio" nell'equazione della vita, perda parte del suo smalto.
"Looper" s'inserisce, comunque, seppur solo a colpi di fuggevoli suggestioni,
entro quella che si potrebbe definire - cinematograficamente parlando - "l'onda
lunga del Tempo" che in simbiotico abbraccio con un altro dei grandi rimossi
della cultura e della coscienza occidentale contemporanea (non a caso la sua
pressoché unica declinazione e' quella spettacolar catastrofica), a dire il
concetto/presagio di Fine (fine della Civiltà, fine della Storia, "fine del
mondo") attraversa - almeno, per restare nelle vicinanze, da "Terminator"
(1984) in poi - l'immaginario moderno, accompagnandolo in spazi ancora in gran
parte sconosciuti o inconsci e allo stato attuale delle prospettive e delle
sensazioni epidermiche scarsamente allettanti. Il presente, confuso e tragico
sembra, nel corpo di queste narrazioni, essere solo il trampolino di cui
servirsi per accedere al futuro da cui magari provare a dare al presente
un'altra opportunità. Tornare indietro come fa Joe/Willis (pochi capelli,
faccia di granito segnata da rughe, antieroe sempre meno risoluto e sempre più
disperato, come se, ad esempio, per magia, il nevrotico viaggiatore nel tempo
de "L'esercito delle 12 scimmie" avesse incontrato e si fosse riconosciuto nel
supereroe fragile di "Unbreakable") ha senso solo se ciò contribuisce a
riaffermare la possibilità di salvaguardare un legame autentico, un'intesa
pura: se, in altre parole, esiste ed e' praticabile il margine per affrancarsi
nel profondo dal cerchio terribile del Tempo, dalle sue ferite, i suoi traumi,
i suoi lutti.
(Benvenuta Ludovica, granello di futuro)
TFK
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