Di GIOVANNI CECCANTI
Smise forse per un momento di cadere quel fitto strato d’acqua nebulizzata che soltanto una fede debitamente rinforzata avrebbe potuto annoverare tra i doni di un Dio generoso. E tanto accadde che l’ateo Brudenell si poté levare il cappello, e non per riverire questo nascosto artefice. Strascicò quindi il passo fino al limitare della proprietà e infine ne uscì a testa bassa, senza prestare sguardi alla cancellata, come se eseguisse un numero a memoria. Oltre le sbarre fittamente adorne di foglie e di rampicanti che richiamavano una natura presente qualche parallelo più giù – un pezzo di mondo lontano, un souvenir dal Grand Tour – si apriva un saliscendi di brughiere e praterie a perdita d’occhio, costellate qua e là da gruppetti sparuti di alberi dalla folta criniera verde scuro. La foresta vera e propria era da qua solo un angolino nella visuale d’insieme, persa verso est. Da quest’ultima prendeva adito quello che era un tentativo di far guerra all’erba e alla sua crescita selvaggia e irrefrenabile: il sentiero dei convogli e delle carrozze. Due tenue strisce parallele vagamente ingrigite che sprofondavano spesso in depressioni ricolme d’acqua per il fastidio sacrale dei passeggeri, per riuscirne più agguerrite e volenterose ed avvicinare un albero per una sosta o uno spiazzo preludio d’un crocevia per decidere su dove proseguire. Questo singolare serpentello spariva quindi dietro una collina, sepolto in una fredda valle, facendosi più visibile mano a mano che risaliva l’erta dove i conducenti bestemmiavano in un criptico alfabeto e frustando i cavalli si chiedevano se fosse logico sperare tanto in una discesa quando per raggiungerla si doveva sempre e comunque affrontare una salita.
Lungo questa strada Brudenell scorse finalmente due macchioline nere sorgere in lontananza da quella monotonia. Camminò a fianco del ferro battuto che delimitava la sua proprietà portandosi il bastone di radica davanti e seguendolo pedissequamente con brevi sospiri di fatica. Il cielo sopra si era fatto bianchissimo e né il sole né le nuvole vi si distinguevano più. Intercettò finalmente la strada soltanto per assumervi un’aria trasognata, l’aria che riteneva confacentesi ad un uomo della sua età in giro per sgranchirsi le artriti. Si guardava in giro dondolando la mano che teneva il cappello con la massima euforia concessagli dal fiato della morte sul collo.
Un tempo la sua nonchalance fu vista come la freddezza di un condottiero, come una qualità utile sul campo di battaglia, oltre che come l’ostinata conferma del desiderio di un bambino viziato; ma dopo Balaclava si parlò piuttosto di un artista, di un visionario capace di opere magnifiche ma non certo della guerra. Ed eccolo qui, adesso, l’autore ineffabile e incallito di quel massacro maledetto, di quella folle mattanza. Eccolo imboccare la strada nel verso giusto per imbattersi “casualmente” nelle due fresche damigelle. Eccolo esasperare ogni suo gesto, interpretar se stesso, rivestirsi interamente di una patina da ribalta sotto la quale si ha il dubbio esistere veramente.
(Brudenell finiva per ripetersi che spesso i gesti d’un eroe vengono scambiati per le arrembate di uno sbronzo, ma che non è l’uomo a decidere della sorte delle sue gesta – la storia, la storia farà per tutti, si diceva. Conta soltanto come si passa alla storia.)
Le due ragazze intanto avanzavano vicine, nel centro esatto del sentiero, quasi una svista o il vento le avesse potute condurre irrimediabilmente fuori o separarle per sempre.
Brudenell si esibì in un classico passo del veterano con lievi inflessioni tratte dai suoi ricordi di un lontano cugino focomelico, che completò, al loro riservato approssimarsi, con l’alzata impercettibile del cappello al cielo, tenuto per la tesa, come aveva visto fare ai mendicanti per le strade delle grandi città. Avrebbe potuto esaurirsi tutto quanto con l’educata inclinazione delle loro teste profumate e adorne, se solo il conte non avesse proferito un magnifica giornata proprio al loro passargli oltre. Allora la semplice riverenza non fu più sufficiente ed esse si sentirono in obbligo di rispondere con un proprio vero. C’era però, nel loro generale atteggiamento, un’evidente smania di disinteresse, come se il loro fuoco fosse spostato su tutt’altri pensieri. In Brudenell, d’altro canto, erano troppo grandi l’impegno atto ad una conversazione, seppur breve, e la voglia di coniare con tale estasiante rarità la sua giornata, per non insistere nel discorso ancor prima del loro inevitabile arrivederci.
«Intendo dire che la bellezza della nostra amata patria è troppo spesso mutilata da un clima avverso per non soffermarsi ad esaltare certe brevi concessioni…»
La più educata delle due si fermò per prima a pochi palmi da questa frase, forse sicura dei tesori della pazienza.
«Stavo appunto dicendo a mia sorella – esordì, mentre l’altra con minor dedizione assecondava questa scelta – che giornate come questa sono un dono del Signore».
«Cosa faremmo senza di Lui», ironizzò dolente il conte. Quindi tese il viso e attese. Un magrissimo sorriso divise il suo volto in due.
«Dove ve ne andate?», proferì da quella feritoia.
«Stiamo andando in paese», risposero quasi in coro e interamente deluse dalla sosta forzata.
«Non vi avevo mai vedute prima. Abitate per caso in questa contea?»
«Sissignore, siamo di Daventry. Abbiamo una casa a pochi chilometri da qua, dove viviamo con nostra madre e…»
La ragazza ebbe un singulto, quindi un ripensamento che mascherò continuando a parlare, come se desse finalmente sfogo a quanto voleva veramente dire.
«Ma vedo che anche lei è mutilato, signore. È stato forse in Crimea? O la polio per sventura l’ha presa come molti di noi?»
Nella sua voce s’affacciava una pietà quasi sincera. Le labbra di Brudenell tremarono un momento, quindi fecero spazio allo smalto livido e scintillante dei suoi denti: il momento era arrivato ancor prima del previsto.
«Sono un eroe di guerra», disse.
I volti delle due damigelle s’irrigidirono in una forma di stupore che si prova sempre di fronte agli smargiassi e ai vanagloriosi, ma che ora doveva fare i conti con il rispetto dovuto ad una plausibile verità. Brudenell dal canto suo si sorprese di trovarsi così impaziente e desideroso d’essere incensato e si meravigliò di aver veramente detto quanto aveva appena detto. Quindi – una decina di corvi si levò in volo con uno scroscio d’ali – la sorpresa e la meraviglia sfumarono com’erano venute nell’attesa delle loro inevitabili parole di ammirazione, dei loro troppo prodighi ringraziamenti a nome dell’intero popolo britannico e della loro non affatto indiscreta richiesta di un breve ma dettagliato resoconto delle sue imprese. Ma tutto questo non avvenne. Ci fu invece un silenzio di troppo, un fastidioso decantare della sua presunzione nell’aria, un pericoloso esacerbarsi della sua squillante affermazione. Avvenne allora ciò che mai era capitato. È vero, aveva saltato delle parti e si era dimenticato stralci interi del suo copione; forse aveva persino sperato troppo nella facilità con cui avrebbe ottenuto del buon vecchio servilismo da due ingenue ragazze frettolose, e la sua brama non era certamente mai stata tanto violenta. Ma che diamine, era un eroe di guerra! Di questo solo avrebbero dovuto tener conto! Che forse Napoleone sarebbe apparso meno un abile stratega se lo avesse gridato ai quattro venti? Il coraggio smette forse di valere se è affermato con vanteria? No di certo! diceva lui. Ma le due sorelle rimasero ancora in silenzio mentre lo fissavano affettando distrazione e tradendo una sottile, lacerante agitazione.
Il conte, che aveva ancora il viso aperto nella “a” di guerra, cercò, senza riuscirci, di apparire di nuovo trasognato e distaccato come prima, ma soprattutto non affatto bramoso d’una rapida risposta. Capirete, fin troppo bene temo, come tutto questo divenne imbarazzante per il povero conte, e quanto necessitasse di una tempestiva risoluzione che lo cavasse d’impaccio. Era semplicemente assurdo che un’aspettativa tanto dorata potesse, nei fatti, tramutarsi nel suo opaco contrario.
Un ingorgo di correnti nel suo stomaco gorgogliò indisturbato e udito soltanto dalle due improvvisate astanti.
«E dica: quali sono le sue imprese?», chiese la rossa delle due, una tormenta di lentiggini sulla fronte e sugli zigomi. Dapprima Brudenell non rispose. Comunque la guardasse, e l’aveva aspettata al varco questa domanda – proprio questa, signori miei! – non vi riusciva a trovare ammirazione né prodighi complimenti. Incredibilmente il suo suono non gli era apparso così celestiale e accomodante come si era immaginato. Avevano atteso, è vero, ma poi avevano chiesto. Si erano piegate, come tutti gli altri. Cosa era accaduto allora di diverso? Le cinque paroline magiche erano tutte nell’ordine e nel posto giusti, pronunciate per altro con squisito accento delle Midlands. Forse quell’e dica scolorava un tantino il significato seguente; forse appariva persino un po’ a sfottò… Che fare dunque?
Proprio allora, nelle frenetica corrente dei suoi dubbi, il nostro commediante ebbe a far valere il nome che si era duramente guadagnato per mare e per terra. Come l’errore nella battuta d’un altro ci manda in confusione anche le nostre, così Brudenell aveva perduto il filo del suo discorso già sceneggiato. E allora, da vero pilastro della rappresentazione, seppe riagguantare il suo sangue freddo e improvvisare la più iperbolica delle comparsate.
«Ma voi, scusate se passo di palo in frasca, siete vestite a lutto… Che sciocco. Avrete certo i vostri crucci… Cosa può interessarvi delle mie imprese trapassate, dolorose, ahimè, anche per me da ricordare, se la vita, proprio in questi giorni, vi ha giocato uno dei suoi sporchi trucchi? Possiate altresì perdonare la mia boria e continuare il vostro triste peregrinare…»
In questo modo, grazioso e delicatissimo, con le pause e l’intonazione degni d’una menzione particolare, apprezzerete come riuscì a tornare nella trama che aveva ordito, e dalla quale era uscito per l’imperdonabile fretta di vederne il finale. Ci sarebbe stato dopo, con il ritmo e la cadenza esatti, il tempo di tornare a quanto sperato. O altrimenti, se la situazione si fosse rivelata grave come aveva previsto e come si era impedito di credere, avrebbe mancato la fortuna, ma schivato anche l’umiliazione. Non potevano, a questo punto, evitare l’appuntamento che aveva magistralmente ideato.
S’incaricò la bionda con il cesto appeso all’avambraccio:
«Lei adesso coglie nel segno, caro signore – Dunque prima non avevo colto nel segno? – e perdoni invece lei il nostro scarso entusiasmo di poco fa; ma come certo capirà, il fatto ci ha molto turbate. Vede, proprio stanotte il nostro caro fratello se n’è andato. Se n’è andato nel suo letto, preda ormai di deliri e convulsioni in tutto il corpo. È stato, per un verso, quasi una liberazione, veder finire tanta immane sofferenza. Il dottore, neanche, era pronto. Non avevamo più morfina in casa. Quando venne da noi la prima volta, per visitare nostro fratello, saranno state due settimane fa, giusto?, ci disse che se aveva appetito e continuava a mangiare quanto mangiava allora non poteva essere nulla di grave. Poi però le gambe e le caviglie hanno ripreso a gonfiarsi più di prima e a diventargli blu come la notte. Stamani, non le dico, aveva due caviglie così». Con le mani disegnò un piccolo oblò nell’aria che a Brudenell ricordò il suo battello indiano. «Non abbiamo potuto neppure rimettergli le scarpe. Dio solo sa come lo infileremo nella bara».
L’altra sorella, la rossa, guardava spersa nel vuoto, ascoltando quelle parole come una stanca litania ormai logora.
«Ma cosa è stato, dunque?» s’interessò il conte.
«Un caso di gotta. Pare che non se ne vedesse da decenni da queste parti. E li chiamano dottori… Una malattia terribile, signor conte, una malattia davvero terrificante…»
Orchestrazione perfetta. Nell’attuale clima di bonaria solidarietà non era neppure così stralunato vedervi una rivoluzione a proprio vantaggio.
«Ne sono profondamente affranto, – continuò sempre più a suo agio il signor conte – contate pure su di me per qualunque cosa».
Di nuovo un principe nel suo foro, un ragno affamato nella sua ragnatela. Come nulla gli uscivano bei ricordi sulla città che aveva dato loro i natali, un classico buco inglese, e snocciolava aneddoti sulle disgrazie della vecchiaia e dell’infermità, esaltando di seguito le gesta del reale esercito all’estero e le conquiste agricole della regina Vittoria, ma senza mai calcare troppo la mano. Preparava il campo, come si dice, snocciolando frasi di circostanza.
Poi un’eco intorbidì il suo placido laghetto. Nella foga non ci aveva fatto caso. Come poteva, quel biondo angelo, sapere che era conte? Non ricordava d’aver menzionato niente al riguardo. Eppure lei così l’aveva chiamato, signor conte. Repentinamente, e per la seconda volta, qualcosa di incredibilmente sfuggente faceva vacillare la sua integerrima disonestà. Qualcosa di trasparente, di volatile, come un’allusione… Chi inventerebbe una storia simile pur di eludere una situazione scabrosa? Era questa una situazione scabrosa? Che esse sapessero?
Uno spasmo nervoso gli fece schiacciare il cappello contro la coscia. Le due sorelle, un passo di fronte alla sua radica, erano separate dallo spazio d’una tazzina di tè e si tenevano strette una la mano dell’altra. Parlavano ancora, continuativamente, forse del fratello morto, forse di altre insulse questioni non pertinenti. Si sorprese a rispondere loro, ad annuire, ad incentivare la loro logorrea mentre nella sua mente balenavano i più spaventosi sospetti ed arringavano nuove ribelli ipotesi. Si scoprì ventriloquo di se stesso mentre una voce soffocata, come proveniente dalla sua pancia, esalò le seguenti parole sovrapponendole ad altre meno urgenti:
«Dunque voi sapete chi sono io?»
Riprese a cadere una leggera pioggerellina, o forse non era mai smesso.
Le due sorelle si ammutolirono; lo osservavano ora senza più affettare la distrazione di prima, come se si fosse definitivamente infranta una tensione, un equilibrio, o come quando un pezzo di scenografia si rompe e cade con fragore sul palco, lasciando attoniti gli attori di fronte a tanta, troppa verità.
[Continua]