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“Lord Cardigan”: un racconto inedito di Giovanni Ceccanti 3/4

Creato il 05 gennaio 2015 da Criticaimpura @CriticaImpura

“Lord Cardigan”: un racconto inedito di Giovanni Ceccanti 3/4Di GIOVANNI CECCANTI

A pranzo Brudenell non toccò cibo. Il turbamento di quella strana mattinata lo percorreva ancora in quei momenti e aveva fatto sì che gli si chiudesse lo stomaco. Adeline invece definì superlativa la quaglia – l’umiliazione legata e indorata di una quaglia. Entrambi sapevano che la cacciagione stava finendo ed erano giorni che la cucina faceva uscire sempre le stesse cose soltanto cucinate in un modo diverso. Il fatto era che nessuno andava più a caccia spesso come prima.

Dopo mangiato Adeline manifestò la sua volontà di spostarsi nel salotto più vicino alle camere per leggere un po’. Brudenell era rimasto a tavola a sorseggiare del vino liquoroso d’importazione e non la degnò d’una risposta.

«Cos’hai James?»

La signora Brudenell si rivolgeva di rado al marito, ma quando lo faceva lo faceva sempre in una maniera così dolce che colpiva quasi sempre l’interessato. Aveva dei modi di dire, dei termini, che lo potevano letteralmente squagliare.

«Hai ragione, – continuò – il pudding era veramente stucchevole oggi. Del resto Mary fa anche troppo, se ci pensi».

Brudenell tracannò il bicchiere.

«Non so il tuo fegato come ne risponderà, caro».

Ma il conte non la stava ascoltando. Pensava invece a quelle due sorelle e a cosa avranno pensato vedendolo sbiancare e andarsene senza un saluto, senza una parola di commiato.

C’era un detto che Brudenell adorava particolarmente secondo il quale gli inglesi, nella loro storia, avrebbero conquistato terre e nazioni in lungo e in largo soltanto per fuggire il cibo, le donne e il clima che si ritrovavano in patria. In fondo, pensava, c’era qualcosa di terribilmente vero in questo, qualcosa che travalicava la volontà degli uomini e che andava a sostituirsi ai racconti e ai miti di millenni di storia. Come se ognuno si raccontasse la stessa granitica verità in un modo completamente diverso per illudersi di dominarla. Quale splendore, quali ardimentose imprese, quali imperi. È solo una perenne fuga dai luoghi dai quali proveniamo, un gioco a nascondino da noi stessi. E il vecchio conte aveva maturato, in questa convinzione, un odio incallito per le sue radici che superava di gran lunga qualunque tipo di risentimento umano. Non era il fatto di essere inviso alla maggioranza dei suoi compatrioti, né le pieghe che col tempo la sua vita aveva preso ad assumere, negli anfratti delle quali stava ben nascosto il bambino un po’ tocco che non aveva voglia di studiare; non era la falsità imperante dell’ambiente nobiliare, quel titolo di Lord cadutogli tra capo e collo, né la loro cieca fiducia in un sistema precostituito e nel valore intrinseco delle convenzioni; non era neppure quella loro freddezza spacciata per razionalità, quel loro pensare che “empatia” fosse solo un altro modo di chiamare la debolezza. Non era certamente – anche se qua si ha difficoltà a crederlo – il fatto che non fosse riuscito in nulla di quello che aveva fatto della sua vita, dalla carriera politica a quella militare, passando com’è evidente per due matrimoni di convenienza che non gli avevano dato un solo erede. Ma non era colpa neppure di Adeline, la dolce Adeline, la sconsiderata puttana Adeline, che nel suo ostentato disinteresse aveva fatto molto più di tanti altri, forse di chiunque; era riuscita a capirlo più di quanto lui stesso non fosse arrivato a capirsi. Assecondava, senza farglielo pesare, le sue stanche ultime volontà non per piaggeria ma per l’autentica pietà che sgorga dalla comprensione. Era felice di lasciare tutto a lei e in fondo, pensò, forse era destino che non nascesse più un altro Brudenell. Forse era meglio così, anche se la sua vita sarebbe stata probabilmente un’altra cosa. Forse… Già la sua fu una nascita troppo desiderata, attesa con malata trepidazione e caricata di un fardello di aspettative. Le sue sette sorelle ne erano la più chiara dimostrazione. Non si può desiderare un figlio maschio per restituire simmetria ad un albero genealogico. E questo ramo monco, questo viziato, piegato, costretto, relegato e supplicato ramo monco, non sopportava la totale mancanza di libertà, che diveniva assoluta nel suo religioso e patriottico e culturale avallamento. Forse altri sarebbero riusciti a ribellarsi, magari chiunque altro avrebbe mandato tutti e tutto al diavolo sessant’anni prima. Ma semplicemente non era più possibile fare di queste supposizioni, non adesso, non in questa trappola per topi. Piano piano si era reso conto di aver vissuto la vita di un altro, di un altro che doveva essere il suo più grande modello; si era reso conto di non aver mai preso una sola autonoma decisione che si librasse lontana dalle volontà altrui, dagli altrui bisogni. E i suoi di bisogni? E la sua di volontà? Annichiliti entrambi con pochi, decisi gesti delle mani. Un divieto all’origine di tutto. Ma non con severità, mascherato al contrario nelle vesti del favore e del bene futuro. La debolezza d’altronde non è un peccato ma una condizione forgiante. Non si può decidere d’esser forti. Ma chi è infine questo inglese, questo grande modello da seguire? Cosa chiede a noi questa nostra terra così ostile? Che la si veneri abdicando a noi stessi o che la si odi con tutte le nostre forze? Un atto di misericordia o di libertà? La risposta a queste sue domande era tanto banale ed evidente da sconcertarlo. Ma la vera domanda cui voleva rispondere era un’altra: è più libero votarsi ad una causa o emanciparsi da tutte? Questa domanda davvero lo tormentava, si insinuava nei suoi pensieri come un ritornello dalla musicalità ipnotica, come un ricordo vago e oscuro che riesce comunque a rivangare l’angoscia che fu. Ma per quanto si sforzasse, per quanto aspramente desiderasse risolversi, non riusciva a trovarvi risposta; anzi, si accompagnava a questa impossibilità l’odioso tarlo che non fosse la domanda giusta, o che fosse sbagliato porsela. Aveva cioè da una parte l’ansia di sentirsi libero – una patologia curabile con un abile e oculato giudizio di sé – dall’altra l’ansia di non essere sulla giusta strada e che il suo fosse solo un pio desiderio – anche solo “sperare” in una qualche libertà. Resistevano, tese, tali incalzanti questioni, a dare l’ardore e la trepidazione della giovinezza ad uomo giunto alla rara età di settantotto anni. Non c’erano più l’infamante accusa di vigliaccheria, il dubbio che fosse un buon inglese o un buon soldato, lo sgranchirsi forzato delle gole quando faceva i suoi strascicati ingressi. Non sentiva più niente di tutto questo. Restavano soltanto il suo lato mostrato contro quello tenuto nascosto, verità o meno in perenne speculare confronto.

«E allora, il tuo fegato? Non mi stai ascoltando, vero?» riprese Adeline.

Brudenell si girò verso di lei.

«No, Ady, scusami. Stavi dicendo?»

«Che bere tanto all’età che hai non è la migliore delle ricette».

«Tu dici? Perché, cos’altro dovrei aspettarmi adesso? Dell’altra vita? Non credi che a questo punto bere sia la migliore delle cose da fare? La morte è di là che mi attende. Lascia almeno che l’accolga di buon umore».

«Sai cosa ti frega a te?»

«Come dici?»

«Non fai nulla di quello che ti piace».

«Non mi piace nulla. È diverso».

«Vedi: io ci ho pensato. Una volta mi dicesti che da bambino cadesti da cavallo. Tuo madre e tuo padre si preoccuparono molto e pensarono che ne fossi rimasto ferito, da qualche parte nella testa. Una preoccupazione comprensibile, non dico nulla… Pensaci bene però, cos’è che ti è sempre piaciuto sopra ogni cosa? Perché premesti tanto perché tuo padre ti facesse entrare nella cavalleria anche se lui, con tutte le sue forze, non voleva che il suo unico figlio maschio si arruolasse per poi morirgli in guerra? Cos’era che ti affascinava tanto di Waterloo e di Napoleone? Pensaci bene. Napoleone era un ottimo cavallerizzo…»

«Scusami ma non ti seguo».

«Io credo che tu non sia mai risalito veramente da quella caduta. Credo che la tua unica vera passione, nella tua intera vita, siano stati i cavalli».

«…»

«Sì, proprio i cavalli.»

«…»

«E che con questa storia della nobiltà e dell’esercito tu te ne sia a poco a poco dimenticato. Cavalcare, libero, non da soldato, non da Lord: soltanto cavalcare e strigliare quei cazzo di cavalli».

«Vuoi dire che adesso dovrei cavalcare? Ady forse sei tu che non dovresti bere a pranzo…»

«E perché no? Passi troppo tempo seduto a pensare nei tuoi duemila salotti e nei tuoi stramaledettissimi battelli!»

«E come credi che riuscirei a salire su un cavallo con questa gamba?»

«Andiamo James, sappiamo entrambi che questa buffonata della gamba non potrà andare avanti per sempre! Non vorrai dirmi che per una stupidissima ripicca sociale, per questa tua recita schifa, saresti in grado di privarti dell’unica cosa che ti possa dare piacere a questo mondo?»

Brudenell rimase alquanto sorpreso dall’iniziativa della moglie. In qualche recondito nascondiglio di sé sapeva esistere un’accoglienza festosa e gaudente per essa; ma restava la sua battaglia. Tutta la sua energia veniva prelevata giorno dopo giorno dall’ostinazione a predominare del suo lato mostrato, quello che lui stesso più sovente vedeva e rivestiva di credibilità. Come poteva regolarsi con questo? Amava i cavalli. Questo lo ricordava. Li aveva amati. Non ricordava desiderio più forte di quello che aveva provato le mattine presto prima di uscire per andare alle scuderie con suo padre. Tutta la preparazione, la celebrazione del momento, l’allestimento dell’uscita. Il freddo nelle ossa da far rimpiangere il letto per l’eternità – eppure a lui neanche veniva in mente. Quella era l’anticamera della felicità. Fino a qualche lustro fa l’aveva ancora provata, aveva di nuovo attraversato quell’anticamera quando usciva a cavallo per cacciare. Ma poi era successo quel che era successo, e un uomo fa il possibile con le forze che si ritrova per arginare la catastrofe. Ciononostante aveva una presente insistenza anche il suo lato nascosto. Tenuto nascosto. E avrebbe anche potuto dargli voce, se soltanto… Cosa sarebbe accaduto all’altro? Sarebbe stato stracciato in un istante e tutti quegli anni di abiezione e rivolta sarebbero svaniti nel nulla. Il suo credo più forte, l’illusione a volte di una suprema libertà, sarebbe stato vanificato per un giocoso diversivo di bambino, un’altra forma di libertà di cui aveva ricoperto la lucentezza sotto la coltre polverosa degli avvenimenti. Questa enorme incertezza imboccava da una parte la tentazione… Altri dubbi però presenziavano al suo monologo interiore. Perché Adeline insisteva su questo punto? Aveva dei secondi fini oppure credeva davvero in un probabile beneficio? Questo dualismo lo esasperava. Lo dilaniava, questa è la parola giusta. Cosa avrebbe suggerito ad un altro nella sua stessa situazione? Provare a specchiarsi negli altri era sempre stato il suo più fedele metro di giudizio. Come per il bere, in fondo, valeva la regola del tempo in scadenza, un tempo che come ultima gioia offre la possibilità di scombinare le carte, di arrendersi al caos senza una rete di salvezza. La tentazione…

«Mi aiuterai tu a salire», disse infine repentinamente, come a zittirsi, come quando si butta ogni cosa che ci resta sopra il tavolo delle scommesse, sicuri forse di un miracolo. La recita aveva dunque un nuovo attore, uno strano imprevisto personaggio era uscito dalle quinte che la portasse a termine.

Il pubblico scoppiò in un soffuso brusio.

 [Continua]


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