Torno volentieri su Lorenzo Calogero e
La sua poesia, sviluppatasi lungo trent'anni di incessante scrittura, sempre più era andata caratterizzandosi come luogo di negazione e antitesi del reale. L'operazione calogeriana è in tal senso "totale risoluzione della biografia nel testo" (R. Jacobbi), ovvero redenzione del proprio silenzio di vita in luogo di parola, della propria sconfitta biografica in felicità creativa. Più la sua vita assume il senso della chiusura e dell'isolamento, più la sua poesia ambisce a uno statuto di assolutezza, apertura, viaggio metafisico. L'universo che essa definisce è puramente linguistico; il suo tema unico e ossessivo è il sogno, la scrittura, l'altrove, testualizzati in un complesso e per nulla arbitrario - come qualcuno ha detto - sistema di analogie e metafore. La poesia calogeriana si nega ad ogni referenzialità, tematizzando se stessa in una fitta trama di stilemi ritornanti e di simboli codificabili. "Città fantastica", "sogno", "favola", "meraviglia", "lontananza", essa si delinea in un geometrismo evanescente in continuo movimento, secondo la rappresentazione visiva dell'arabesco.
Le essenze che la abitano sono "fili", "raggi", "larve", "voli", "lampi". Il suo tempo corrisponde all'effimero, all'infinitesimo ("e dell'uragano nulla resta"); tutto è "paurosa fuga", "viavai", "marea di larve". Non solo vi è negato il permanere, la traccia, la consistenza, ma anche la visibilità: solo "chi ebbe cigli chiusi e alla brezza / fu sveglio", può accedervi:
Forse sono in sonno e in sonno sonoro:
una città che naviga a stormo
e di là non vede nessuno
(Op. poetiche, I, 344)
È un universo metafisico, abitato da suoni che deambulano in una allucinata vaganza — il movimento che ha come fine se stesso, il proprio smarrirsi:
e tremano vane le onde, le parole
il tuo regno e per questa salsedine
sulla siepe acquatica.
(Op. poetiche, I, 379)
Le parole, i suoni, le essenze del linguaggio, sono ricondotte ad uno statuto di passaggio, non riempiono il vuoto, non incidono sul reale, sono totalmente e irredimibilmente immateriali :
Io dico che questa voce,
la voce della poesia,
si ripete per questi chiari
spazi stellari e riempie di sé
questo firmamento delle cose.
(Parole del tempo, pag. 69)
Gli estri, le cose esatte
le monotone cose poi, ma questo
puoi estendere alle nuvole,
quando, rarefatto il tempo, il vuoto
è un rudere di passaggio.
(Op. poetiche, II, 78)
La dolorosa separatezza di questo universo linguistico che è la poesia di Calogero, va approfondendosi nel corso della diacronia delle opere. Un libro centrale come Sogno più non ricordo, scritto dal 1956 al 1958, sancisce la perdita anche dell'ultimo referente di questa poesia, la memoria, dematerializzante ed orfica; il sogno è ormai definitivamente autopropulsivo:
Dopo la meraviglia
passò simile a se stesso un misterioso accordo
un ricordo.
(Op. poetiche, I, 305)
A partire da Come in dittici, l'universo onirico viene ad essere simbolizzato da una evanescente figura femminile, che motiva una nuova frequenza allocutoria, un serrato e impossibile tentativo dialogico, una intensa problematica della duplicità. L'io tenta di risolversi nella scrittura, di completare la propria derealizzazione.
L'ultima opera, i Quaderni di Villa Nuccia, segna l'approdo di questo processo di azzeramento del reale e ipertrofia del linguaggio, di annullamento dell'io empirico e assolutizzazione dell'io poetico:
ma forse perduto nel limo mi basta
quest'aria che s'arroventa ai cirri di settembre.
Con che rotondo occhio la luna mi guarda!
(Op. poetiche, I, 397)
(...) Ma ora liquido non posso
non posso camminare
(Op.poetiche, I, 347)
Le stesse modalità della scrittura poetica calogeriana conferiscono al testo una valenza di vanificazione. La poesia di Calogero, secondo una propria ascendenza nella koiné orfica novecentesca, privilegia il livello della fonicità, tanto che spesso la selezione lessicale avviene per "verbigenerazione", ovvero per geminazione e suggestione fonetica. Ad essa sottostà anche la sintassi, tipicamente accumulativa e ridondante, ipotattica e labirintica. La stessa regola metrica viene sacrificata alle ragioni ritmiche, alla necessità di creare, attraverso allitterazioni, accenti, vuoti, onomatopee, un'area di vaganza fonetica che vanifichi ogni referenzialità. Così questo calogeriano "gioco dell'oscurità" viene ad essere semantizzato, individuato come intima necessità di una poesia di inaudita radicalità e modernità. (da una nota di Caterina Verbaro)
da Come in dittici
So come sui rami...
So come sui rami
l'arancio si fa d'oro e, stringendosi
languida alla vita,
strana la tua presenza accanto,
inabitata l'inesistenza odo.
Sleghi scivoli. Non so quale certezza
a l'astrattezza di visi singoli
di amici si propone. Lontanamente
si rompe il pane, si detergono
fili d'erba. Luoghi, lunghe file
di fughe fredde di tenebre divengono
Erano gli alberi del mattino
Erano gli alberi del mattino
più stridenti, più odorosi della scrittura.
Io li guardo liquefatto
perché tace la terra o è pura.
Poi si volge la sagoma
dell'antico declino torbido della vita
nella luna. Ruvida non ritorna
indietro più una ruga. È giunta
all'apparato che la sfiora. Con lugubri
magie una luce è smussa,
smussa quanto la siepe è dura.
La lievità commosse le cose
La lievità commosse le cose.
Nell'infingardo spazio l'acredine
scorre, fitto nudo nodo di gioia,
e appena mosse le vene e le onde.
Pure appariva tardivamente
nei giardini entro una foglia
una nuda sommità dell'essere
a poco a poco opaca che si fa nostra
e un fiato era vero
uno era finto smosso dal velo
della memoria in un brivido
che ti ricorda.
da Quaderni di Villa Nuccia
XII
...Era la prima cosa ritrovata
mobile, gentile
come una banderuola
o una donna che va sola,
dalla gonna corta, pazza.
E non portavano un primo palpito
o un sospiro le viole.
Questo lembo era rapito, rapido di sole.
XXXII
Tu eri così vicina alla quiete tua
nella pace ferma cittadina
che ha la sua lontananza
nella nube accesa.
Sapevo umiliarmi
e stare in continua attesa
da quello che meglio dici
da questi scarni rami,
e fu una vita cortissima,
una foresta vastissima
quello che tu solevi additarmi;
e fu umile quel che resta.
Ma si sta meglio dove la vita
non è più una seta a parte
e tu non potevi più obliarmi,
per quello che solevi novellarmi.
E la fonte è misera: è una parte
della nostra parte.
CXLI
ma mio piccolo quadrangolo, erba,
rose e fiori, un tappeto è da lungi
sul quadrangolo del tappeto dell'erba
franata. E tu mia piccola rosa iddio.
Forse volgarmente si accende
questa mia vita. Tu sei insistentemente...
da Ma questo
La luna, il fiore del limone
La luna, il fiore del limone
e il lume, lievi, un'incertezza
de le labbra, la sabbia, la quiete
della sera levigata, fosco punto
in alto il paese del tuo candore
e, ratta rapita al piede, precipitata ai passi,
come i fari il colore dell'avvenire,
la salvia. Non puoi cadere
nel forte odore dei parapetti
e come la malva cedere. Assopiti
sono i sogni dei poeti. Il canto
cieco riemerge o ti angustierai
di settembre, la pallida guancia
su la palpebra tanto riattesa;
e scivola e lungo e glauco era il sentiero.
Il suono a l'altezza dei riquadri
Il suono a l'altezza dei riquadri
e questo inarcarsi al sommo, rivolte
in alto impietosite le mani.
Le madri ebbero ali di sonno
e volto di rugiade, concavi
scarlatti veli d'aria i piani.
E questo musicale non essere
quando passo, quando tocco, quando sfioro
ragionevolmente rivolto alle nuvole.
Trasvola inesperta l'anima. Cave onde
fluiscono da canne nella nebbia
che s'annoia e, persino quando
beltà nuda al suo fianco
dal suo buio s'arrende,
isole verdi appaiono appena
presaga realtà di sogno.
In pampinee turbe
In pampinee turbe
la piaggia sorridente,
l'onda del sole ravvolta
in purpurea effigie
di schiere nascenti o nascosta,
sale in voli trepidi d'aria
o sconvolta.
O mutilate ombre
O mutilate ombre,
denso silenzio ch'era mio
dove l'erba prima della vita rara si colse,
e si frastagliarono i giorni
e non furono più che un pallido ritorno
delle cose prime. Così fu stanca l'anima,
i tuoi sorrisi immensi non specchiarono
più il mio tremore, questa cosa scialba,
opaca, corrosa dal mio amore
che fa bianca un'ala.
da Avaro nel tuo pensiero
L'aria grigia esterreffatta
L'aria grigia esterreffatta
nel solo suo volo si trattiene e non so rupe
o paesaggio così prossimo alla morte
come quello di essere solo nella nudità delle sue vene,
nella densità della terra
in cui erro da sempre.
So molte cose
ma con prova e con gioia. L'erba non mormora
più alla triste sua radice, mossa
dalla velocità aerea del sonno
che dentro se stesso già si serra.
L'aria non può più muoversi
o un uomo non è più solo.
Sempre più dentro a se stesso innanzi
a uno specchio solo informe
opaco si difende.
Un astro era di puro vetro,
un nastro era d'argento.
Sopra mormorii quadrati
Sopra mormorii quadrati,
di onda in onda, sopra una vetta antica
perduta, di gennaio, i tuoi sogni
sono oggi esigui.
Nubi dense appaiono
e non fu più che sogno,
una vanità che lievemente oscilla
dentro le tue mani modiche.
Un sapore
esse avevano di neve
che teneramente internamente brilla.
Il tempo della inumidita distanza
Il tempo della inumidita distanza
dentro l'anima ignuda, sia o no un ritmo
sensitivo di una danza, ora so.
Sola stellante
vicissitudine dei pensieri
bagnati dalla grazia.
Qualcosa avanza
senza nome, senza speranza
di essere mai lugubre o qualcosa.
Hai freddo trepido alle labbra.