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Lorenzo Montano: “Viaggio attraverso la gioventù secondo un itinerario recente” (1923)

Creato il 15 luglio 2012 da Viadellebelledonne

Lorenzo Montano: “Viaggio attraverso la gioventù secondo un itinerario recente” (1923)Ecco un altro esempio di gloria effimera. Famoso a suo tempo, oggi Lorenzo Montano (al secolo Danilo Lebrecht: il padre Carlo Lebrecht era un austriaco la cui famiglia era di origine polacca, la madre Rosa Prister, russa) arricchisce la schiera dei narratori ingiustamente dimenticati. Nacque a Verona il 19 aprile 1893 e morì in Svizzera, a Glion-sur-Montreux, il 28 agosto 1958. Sembrano profetiche le parole che incontreremo in questo libro: “L’essere di gente come noi è percettibile soltanto dove e fino a che siamo presenti; ma non ne resta segno né impronta negli uomini o nelle cose per attestarlo e comprovarlo.”

Dalla rivista Antarem (http://www.anteremedizioni.it/), che istituì e ancora organizza il premio letterario a lui dedicato, traggo le seguenti notizie: “Fu  tra i fondatori della “Ronda” (dove tiene una rubrica di aforismi, moralità, osservazioni critiche intitolata “Il perdigiorno”). Collabora dal 1929 con la casa editrice Mondadori come consulente editoriale, lavoro che conserverà anche in Inghilterra, dove, in seguito alle persecuzioni razziali, è costretto nel1938 a emigrare. Qui diventa redattore del periodico “Il Mese”, di cui curerà, dopo la liberazione, l’edizione italiana fino al 1947.
L’opera poetica di Montano è compresa nei due volumi Discordanze (Firenze, 1915 – pubblicato dalla “Voce” – nda) e Per piffero (anche: “Ariette per piffero”, nda, La Spezia, 1917).
All’esperienza rondista è strettamente legato il libro migliore di Montano, Viaggio attraverso la gioventù (Milano, 1923), romanzo che fa parte di quella manciata di capolavori che decreta all’inizio del ’900 il culmine e nello stesso tempo il tramonto del Bildungsroman.
Alla “Ronda” è legato il volume Il perdigiorno (Bologna,1928) che raccoglie le pagine pubblicate sulla rivista nell’omonima rubrica. In Carte nel vento (Firenze, 1956) Montano riunirà quasi tutta la sua opera, che anche nelle pagine più recenti  – si vedano ancora i volumi A passo d’uomo, Padova, 1957 (Premio Bagutta 1958)  e Pagine inedite, Verona, 1960 – conferma il suo modulo di preziosa e distaccata eleganza.
Notevoli sono le sue traduzioni di Mallarmé, Voltaire, T. Mann, Huxley, Kafka, Eliot, Hughes, Goethe.
Si sono occupati criticamente del suo lavoro: Montale, Camerino, Zanzotto, Bacchelli, Vittorini, Prezzolini, Savinio, Ungaretti.
Nel 1986 la rivista letteraria “Anterem” istituisce a suo nome un Premio letterario di rilevanza europea e, sempre a suo nome, promuove nel1991 incollaborazione conla Biblioteca Civicadi Verona un Centro di documentazione sulla poesia.”
Aggiungiamo che fu anche collaboratore della rivista “Lacerba”

Viaggio attraverso la gioventù” fu molto amato dal suo autore, a cui dispiacque non inserirlo – per non appesantire la raccolta – in “Carte nel vento”, il volume del 1956 che riunì quasi tutti i suoi scritti.

Si tratta di un libro prezioso, giacché, come scrive Aldo Camerino nella introduzione: “Riflessivo al possibile, Montano esaurì in queste pagine la propria carica romanzesca. Già portato, e molto, all’osservazione che commenta i fatti non appena sono avvenuti, rimase saggista: e, sui trent’anni, comprese che questo doveva essere non uno dei suoi romanzi, ma il suo romanzo. Accade che un artista faccia materia d’arte la propria vita e quella dei compagni che con lui la divisero. Questo fu poi Montano.”

Una scelta lucida e determinata, che Montano attuò quando il suo nome era già noto e apprezzato. Come quella di rinchiudersi nel silenzio per oltre trent’anni, poiché riteneva di non aver più niente di significativo da dire. Riprese solo in tarda età, pochi anni prima della morte. Una lezione esemplare per coloro che, ai nostri giorni, sono afflitti dalla mania di scrivere e dalla fregola della notorietà a tutti i costi.

Lo spunto al romanzo viene dato dalla finzione di una lettera che giunge al narratore  accompagnata da due quaderni che recano storie d’amore differenti, vissute dallo stesso protagonista.

Della prima è personaggio femminile Biancanera, della seconda Delfina.

La struttura è pressoché la medesima. Un signore, che si suppone sia lo stesso autore, si prende una vacanza in un luogo solitario della costa tirrenica. Vive in una specie di ozio e contemplazione, annotando pensieri e avvenimenti.

Nel primo quaderno alloggia in una pensioncina gestita da una certa signora Brigida. Davanti c’è una villa dove abita una giovane “piuttosto graziosa”, che ha fatto spasimare di sé qualche tempo prima un giovane, che poi ha congedato bruscamente.

Si possono fare vari richiami letterari. Sappiamo che Montano amava il romanzo di Samuel Richardson “Clarissa Harlowe” (1748) e il Goethe, ma non appare azzardato aggiungere, specialmente per la libera struttura – il richiamo a Laurence Sterne di “Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo”, del 1760. È un personaggio deluso dalle cose del mondo, le sue sono riflessioni malinconiche: “Se le nostre leggi fossero oculate, serberebbero le pene più atroci all’indifferenza; e la società, con maggior cura che contro ogni vizio o delitto, dovrebbe proteggersi contro l’apatia, che nella catena delle azioni e reazioni umane apre di continuo perfide soluzioni di continuità.” Pare davvero di leggere Sterne, anche per l’eleganza e concisione della scrittura.

Indubbiamente Montano le dà quel sapore antico, scevro tuttavia da arcaicismi ingombranti e fastidiosi. Essa resta linda e trasparente agli occhi del lettore di oggi, che non può che gustarne le delicatezze e i profumi. La mente e il cuore dello stesso narratore ne sono presi, talché si può facilmente ricevere da questo speciale incontro la sensazione di una contemporanea manifestazione di passato e presente: “Della città s’intravedeva un po’ di giardino pubblico e un vecchio bastione. Alcuni dazieri stavano lì attorno in quelle attitudini sfaccendate che sono loro proprie; uno di essi litigava con tre donne per un cesto di verdura.”

Biancanera è una donna bella e altera che viene notata dal protagonista, il quale s’incaponisce a conquistarla e ci narra punto per punto i progressi ottenuti. È una piccola indagine psicologica, una schermaglia tra cacciatore e preda, condotta senza l’ansia travolgente della passione, bensì con la lucidità paziente e analitica del seduttore, pur stretta nella morsa tra gli alti e bassi delle sue speranze: “Cammina con passi rapidi e netti, e il moto le scorre dai piedi al capo per tutta la persona flessibile, così eretta e contenuta da lasciare interdetta l’ammirazione dei passanti, che non si voltano se non con prudenza. Mi è sembrato impossibile poterla avvicinare mai.”

Conquistati l’attenzione e gli affetti della giovane, la prosa si scioglie in un canto non privo talvolta delle delicatezze stilnovistiche. La donna è presa a modello di bellezza e di virtù, e il solo contemplarla, il solo poter stare con lei diffondono nel protagonista tanta felicità: “Come mi sembra dolce ora quel primordiale linguaggio d’amore del quale si usa ridere e di cui tante volte ho riso anch’io.”; “Un tremar delle labbra in quella faccia guerriera mi fa nascere dentro una commozione, un tumulto che traboccano in parole felici; tanto felici e piene che solo più tardi, se ci ripenso, mi accorgo di aver fatto i discorsi immemoriali degl’innamorati.”; “Biancanera, tu non verrai a sapere mai quello che io ti devo.”

È un inno all’amore, e all’amore puro, che trasforma e rasserena chi ne è toccato.

Fino al momento della agnizione che tutto ciò altro non è che inganno prodotto dall’illusione. Scrive il protagonista: “e io sprofondo di nuovo.” Solo il tornare libero, il potersi muovere, quasi un fuggire da se stesso, può riallacciarlo in qualche modo alla vita.

Ritroveremo il protagonista, e questi motivi, nel secondo dei due quaderni, in cui tutto è più minutamente analizzato. Non si sa quanto tempo sia trascorso dai fatti narrati nel primo, ma ora il nostro narratore ha a che fare con una donna diversa, una prostituta, Delfina.

Questo è il momento in cui la scorge per la prima volta: “In questo spazio la vidi entrare subitamente, alta e spedita, e pareva che salendo incontro a me si traesse dietro alle candide spalle tutta la notte.” Che è un’affascinante descrizione della luminosità che irradia dalla figura della donna.

Dalla lettura di questo secondo quaderno, un vero e proprio, e smagliante e prezioso, romanzo breve diviso in capitoli, viene confermata un’impressione che si traeva già, ma quasi più timida e nascosta, dal primo, ossia che l’autore attraverso la scrittura crei intorno a sé una visione classicheggiante della vita, una sua compiaciuta e armonica esteriorità, il cui scopo è quello, tuttavia, di fare da contrasto alle passioni intime che tumultuano e, con ciò, imprimono una specie di movimento frenetico alla vita, così decisamente opposto all’apparente tranquillità esteriore da far acquistare ai sentimenti una loro sanguignità, perversità e prepotenza, e soprattutto una loro supremazia sopra ogni altra cosa, tali da avvicinarli perfino a quelli sottili e compositi di un DeLaclos: “Delfina aveva una sua grazia delicata e tremula, sempre diversa: il sorriso fuggevole, gli atti indecisi, i capelli del solito un poco scomposti, certe vesti fluttuanti e ventilanti che preferiva, le componevano intorno un incanto elusivo che per quanto fortemente io lo sentissi, non avrei saputo definire. L’intimo della sua bellezza stava in qualche cosa d’inafferrabile, che pareva non soffrisse d’esser goduto altrimenti che con la coda dell’occhio: fissato, sfuggiva.”

Un vecchio saggio, di nome Antonio, con cui stringe amicizia, porta in soccorso la sua esperienza, che è quella di chi non si accontenta della mediocrità, la sola che può consentire una vita tranquilla. L’approccio alla vita, infatti, di una persona che avverta in sé un “destino superiore”, deve privarsi di questa ambizione ad una vita mediocre a pro di una dedizione assoluta al suo destino: da ciò potrà derivare “taluna dolcezza che ti conforti d’aver rinunziato a quel gran privilegio”.

La scrittura, puntuale, elegante e raffinata, finisce per imporsi come la vera protagonista del romanzo. È di essa che il lettore continuamente gode, assistendo al miracolo del prestigiatore che dal cilindro cava descrizioni che si trasformano al contatto dell’aria in deliziose e seducenti miniature. Si vedano le pagine dedicate al Giardino di Armida, una casa di appuntamenti, in cui vi soffia più un’aria da minuetto che da trivio (la stessa elegante descrizione la troveremo più avanti a proposito della equivoca pensione Angelica). O quelle sul bizzarro e stravagante Cavaliere, irretito dalla procace Floriana. O i brevi tratti su don Venanzio, un personaggio che ricorda Dickens. O ancora quel passaggio di carri che si recano al mercato, pieni di frutta e di ortaggi, che ci rammenta Zola. Questo secondo quaderno si rivela sempre di più come un piccolo gioiello, un capolavoro di incantesimi e di delizie. Leggete questa descrizione di Delfina, che sta subendo dei mutamenti indotti dall’amore: “Mi si rivelò un secondo pudore, incomparabilmente più sottile e delicato di quel superficiale perdutosi già da anni. In una creatura rotta al piacere e divenutavi espertissima attraverso incontri così numerosi e triviali, con la quale io stesso ero vissuto senza sospetto non poco tempo, scoprivo una selvaggia castità superstite, un cuore appena sigillato, da cui scaturivano a un tratto affetti ingenui e limpidi.”

Antonio, però, lo mette subito in guardia dall’illusione che attraverso le donne si possa trovare la felicità. Delfina non può essere diversa dalle altre. È una misoginia che fa capolino nel romanzo, contro la quale il protagonista cerca di combattere: “A quell’amore offerto io m’avvinghiai con la passione disperata del solitario”. Delfina acquista ai suoi occhi la dolcezza di una creatura che per la prima volta avverte la possibilità di essere amata. Quelle due lacrime che le escono quasi di nascosto, mentre è abbracciata con lui, assumono la valenza di una rinascita e di una grande speranza. Delfina contrappone la sua quintessenza di donna, rimasta intatta nonostante la spregevole condotta di vita, alla cinica teoria misogina di Antonio.

Gli effetti di questo suo mutamento sono benefici anche nei confronti del narratore, il quale riflette: “Non è la semplice voluttà che vi stringe insieme, ma un affetto sincero e caldissimo, tale che non rischia certo di scemare, ma il tempo anzi lo nutre, e s’annunzia di quelli che cessano soltanto con la vita.”

Tuttavia, la felicità risulta un valore effimero destinata a consumarsi. La diffidenza e il pessimismo del protagonista gli sono compagni inseparabili. Si ha la sensazione di uno scontento incolmabile, dove la felicità va subdolamente annidandosi come un virus che generi trepidazioni ingannevoli peggiorative, sempre, della malattia: “murato dentro una irrimediabile fortuna come dentro uno splendido e agiato sepolcro”. La società gli è invisa e incompatibile: “Io solo non ho saputo trovar posto in quelle file.” Tenta di uscire dalla sua ostinata misantropia, e in ogni avvenimento, minuziosamente analizzato, cerca una qualche via di fuga. Ma sembra stanca la sua volontà, debole e incerta la sua determinazione: “avevo dinanzi a perdita d’occhio un futuro immobile e roseo, una orrenda monotonia. Il romanzo va sempre più configurandosi come la ricerca d’un rimedio a una penosa, leopardiana, e forse anche irriducibile, malattia: “Ma non c’era più modo.” La noia, l’incapacità a comunicare, la diffidenza per tutto ciò che sta fuori da se stesso, una qualche maniacale presunzione di superiorità e di singolarità, rappresentano il contagio da cui si forza di fuggire. Delfina può essere lo strumento per un tale riscatto. Ci si aggrappa con disperazione, consapevole, allo stesso tempo, che Delfina è anche cagione della sua inquietudine, avendo resuscitato in lei “commozioni che senza di me difficilmente vi si sarebbero mai più destate.”

Delfina, attaccatasi a lui, ha subito infatti un “mutamento meraviglioso, grazie a cui una femmina inaridita nella pratica e negli accorgimenti di quel freddo mestiere s’era accesa di fedeltà appassionata, di devozione senza limite, e di tutti i generosi fuochi che ardono in una donna la quale s’è abbandonata all’amore.”

Ciò genera in lui sensazioni contrastanti di rimorso e di fedeltà.

Delfina e il protagonista sono dunque due naufraghi, la cui salvezza dipende dalla loro volontà di comprendersi, da una concomitanza e concordanza di sentimenti indirizzati l’uno verso l’altro, non facile a realizzarsi, come vedremo. Una micidiale forza centrifuga, infatti, ha preso a vorticare in mezzo a loro, con un’azione devastatrice: “l’idea che sarei potuto uscire dalla vita in qualunque momento mi fosse piaciuto, mi era familiare fin dall’adolescenza, per non dire da prima.”

Si tratta di un romanzo, dunque, che segna un’impotenza drammatica a vivere, e la scandisce attraverso una scrittura che resta sempre, nel profondo, tesa ad una speranza malinconica e perdente.



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