Mater di Lorenzo Zumbo è un’opera contraddistinta da una scrittura avvolgente ed arcana, come sospesa nel suo stesso enigma, nella sottrazione da cui scaturisce. Una scrittura che disegna un perimetro cangiante, prossimo al vuoto, e penetra con una limpidezza inquietante un’area misteriosa e labirintica, onirica e carnale ad un tempo. E’ una prosa, quella di Zumbo, di grande forza poetica, capace di accostarsi all’indicibile e al nulla, di rovesciare in ombra e in visione elementi e forme della realtà, oppure di cogliere nel corpo e nel sangue i segni e le ferite di un’arcaicità sempre presente.
Il libro, suddiviso in tre sezioni, Voce, Isola e Corpo, è il racconto – scandito in brevissimi brani – di una donna che si rivolge alla madre cieca da poco perduta e alla creatura che porta in grembo. I ricordi affiorano improvvisi sulla pagina con una nettezza ineluttabile, ma anche con la precarietà ed il mistero dei sogni: avvengono, si tramutano, si dissolvono in rapide sequenze, che però lasciano il segno e feriscono.
La narrazione della donna dopo il lutto è dominata dall’oscura consapevolezza di un destino, di un’esperienza che pare quasi intraducibile in parole. E’ una stanza circolare. E’ una terra. Un mare. Un corpo che a volte è fuori, distante, a volte è dentro, nelle viscere e nell’anima. Le pagine trasmettono, in uno scenario di apparizioni e dissolvenze, sapori, profumi, orizzonti, silenzi, voci, sguardi, misteri che hanno il fascino dell’ignoto che da abita l’esistenza.
La figlia ha vissuto una sorta di strana iniziazione. La madre l’ha condotta presso la sua notte, le sue visioni, le sue parole. E’ stata presente e assente nel medesimo tempo e la figlia ha sperimentato sempre la mancanza.
Com’era davvero la realtà così sfuggente della madre? Dov’era?
Il suo mondo èstato il buio dell’Altro, la sua inafferrabilità. La figlia avrebbe voluto essere come lei, ma a volte ha avuto paura perché la cecità era quell’abisso che fisicamente non le apparteneva: la mancanza di una mancanza.
Le visioni nate dal buio della cecità hanno contaminato la vista della figlia, la sua narrazione, i suoi ricordi, decretando però un’impossibilità lacerante, un dolore profondo. Non a caso la figlia dipinge occhi, perché il suo destino sembra proprio in bilico tra vista e visione, tra l’occhio fisico e quello interiore, tra lo sguardo naturale e quello profondo, legato all’inconscio, alle emozioni, ai sogni.
Non è poi forse tanto azzardato sostenere che la cecità della madre rimanda alla scrittura e al suo mistero, alla necessità del buio per possedere una sensibilità particolare, una visione del mondo e delle cose non rigida, aperta, fluttuante, multipla. Si veda il brano in cui la voce della madre sussurra: “Tutto è nome. Tutto. Le piante del giardino. Gli uomini. I cuccioli di cane. Le cime delle montagne. I laghi. Ciò che proviamo. Ciò che non proviamo. Tutto è nome perché tutto attende di essere chiamato per esistere”. Oppure il ricordo di quando la madre, già malata, abbandona fogli di carta con alcune frasi, che la figlia ricopia: “Nera stella del mattino. Nero cielo. Nera terra senza forma, né materia. Nero strumento. Nero turbamento. Nero inizio e proseguimento”.
Il buio della cecità materna incontra poi quello prenatale del bambino che sta per nascere. Egli è una creatura della terra, del mondo, ma lei, la madre, è davvero una creatura segnata da un’esperienza abissale, da una mancanza diventata lutto.
Dalsuo racconto, cioè da tutta l’opera, emerge il problema irrisolto dell’identità. Tutto sfuma, tutto appare e scompare in lei. Tutto c’è e non c’è.
Ella è contemporaneamente orfana e privilegiata, in quanto ha ereditato in parte il buio e le visioni della madre, che ora la possiedono. La sua è un’identità incompiuta, a metà.
Nell’ultimo sconvolgente brano, la maternità si configura per lei come l’evento decisivo per compiere un atto estremo: essere finalmente come sua madre, donando follemente al bambino uno sguardo altro: il segreto che egli dovrà custodire.
La ricerca di un’unità originaria perduta e di un’appropriazione di sé diventano così alla fine del libro dono e sacrificio di sangue, come in un’antica e rinnovata tragedia d’amore e di follia, di sogno e di carne.
Mauro Germani