Duomo di Fanny.
Da quando la repubblica è caduta in balia d’un pugno di potenti, a loro versano i tributi i re e i tetrarchi, a loro pagano imposte popoli e nazioni; gli altri, noi tutti, coraggiosi, onesti, nobili e non nobili, non siamo stati che volgo, senza autorità, senza prestigio, sottomessi a coloro ai quali, se lo stato fosse efficiente, dovremmo far paura. Così, influenze, poteri, onori, ricchezze appartengono a loro e a quelli che godono dei loro favori; a noi hanno lasciato sconfitte elettorali, insicurezza, processi, miseria. Fino a quando, o miei prodi, siete disposti a sopportare? Non è preferibile morire da forti che consumare ignominiosamente un’esistenza misera, oscura, fatti zimbello dell’altrui superbia? Ma, in verità, e chiamo a testimoni gli dei e gli uomini, ormai abbiamo la vittoria in pugno. Siamo giovani e non ci manca l’ardire; essi, al contrario, li hanno logorati gli anni e gli agi. Basterà avviare l’impresa, il resto verrà da sé. C’è un uomo al mondo, un vero uomo intendo, disposto a tollerare che vi sia chi anche dopo aver profuso tesori per edificare sul mare, per spianare i monti, guazza nell’oro mentre a noi manca persino il necessario? Che quelli mettano in comunicazione palazzo e palazzo per abitarvi, e noi non abbiamo neppure un tetto? Per quanto comprino quadri, statue, argenteria cesellata, demoliscano case nuove per costruirne altre, insomma spendano in tutti i modi, ad onta di questi sprechi non riescono mai a esaurire i patrimoni. Noi, invece, a casa nei debiti; avversità d’ogni genere e un domani ancora più fosco: che cosa ci resta, se non questa grama esistenza? ( Meditazione su: La congiura di Catilina ”xx” di Gaio Crispo Sallustio).
A M I L A N O
… Giorno verrà che in altre piagge, in qualche
Altra contrada u’ spingerammi forse
La sorda ancora impenetrabil sorte,
Saran tutti di te i miei pensieri,
Arridente Milano, ove seconda
Han patria dolce i non tuoi figli anch’essi;
E chiara vai tra le europee sorelle
Qual felice terren cui serpe a tutte
Le stranie piante acconcia linfa in seno,
E di sugo largo ad ognuna,
L’indol ne appaga e lor radici attragge.
Di tranquilla virtù lido ferace,
Sempre a te lieto il suo ritorno affretti
L’astro del giorno, e si consoli e goda
Su i pacifici tetti a freonda ignoti
La porpora versar de’ raggi suoi.
Qui fede ancora e verità, qui schietti
Semplici sensi e non rigonfi e vani;
Qui aperto splende il bel Lombardo cuore.
Né tu brilli qui men, che al mondo sei
Quel che ai fior la rugiada, all’erbe i fiori,
Del sorriso del ciel immagin vera,
Sesso miglior, che amabil regni e l’uomo,
Mentre ei sogna l’impero, tu col blando
Di due luci poter allacci e guidi
In roseo vinto non solubil nodo.
Tu freno a lui, nobile sprone, e degna
Spesso cagion di sue più chiare imprese.
Deh! Tu che il puoi nei maschi petti mai
Dormir non lascia e anneghittir virtude.
Sien gradi al don de’ tuoi pudichi affetti
Timor dei Numi, umano cor, gentile
Fervido zelo delle sante muse,
Studio di bene e carità di patria…
-Lodovico Di Breme-