Dopo Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno, eccomi a scrivere di un’altra commedia italiana, Loro chi?, capace di esprimere la volontà di rinnovarsi con intelligenza, mettendo via il solito abito consunto e più volte rattoppato del facce ride pronto uso e vestendo finalmente un nuovo capo frutto di un fine lavoro di sartoria, ovvero una sceneggiatura sagace e brillante ed una regia che, pur con qualche strappo verso il finale, riesce a visualizzare con abilità ed una certa eleganza la particolare, per quanto non inedita, struttura narrativa del racconto.
Viene infatti messo in atto un “gioco a nascondino” con gli spettatori, incentrato fra ciò che viene narrato e rappresentato in scena e quanto potrebbe essersi verificato nella realtà vissuta dai protagonisti, offrendo risalto tanto alla potenzialità della scrittura quale mezzo idoneo ad offrire una dimensione “altra” della quotidianità, quanto del grande schermo in guisa di originaria lanterna magica, atto a dispensare illusioni ed offrirci la visione filmica dei nostri stessi sogni. Loro chi? vede l’esordio dietro la macchina da presa dello sceneggiatore Fabio Bonifacci, il quale, oltre al consueto “lavoro di penna”, va quindi ad affiancare Francesco Micciché, che invece ha già alle spalle una serie di esperienze registiche (cortometraggi, documentari e lavori per la televisione).
Edoardo Leo
La vicenda prende il via a Trento: un uomo vestito da cameriere entra nell’ufficio del redattore (Antonio Catania) di una casa editrice, per portargli la colazione. Ma una volta fatto ingresso tira fuori un manoscritto e subito dopo una pistola: pretende la pubblicazione del suo romanzo, cedendone i diritti dietro pagamento immediato, una somma di denaro che gli consentirebbe una sicura fuga all’estero. Infatti David (Edoardo Leo), questo è il suo nome, spiega all’attonito redattore come sia coinvolto in una storia del tutto particolare di truffe e raggiri, la stessa oggetto della sua opera e che ora inizia a narrare.
La sua vita è stata finora caratterizzata da varie tappe lavorative, ognuna di esse spinta da inedite motivazioni, anche se, al di là di tale apparenza, a muoverlo sembra essere una certa insoddisfazione, dovuta anche all’incapacità di offrire sostanza alle proprie aspirazioni. Da scrittore ventiseienne in quel di Pomezia, autore di un primo libro dal discreto successo (almeno nell’ambito familiare …), eccolo poi giornalista, addetto all’ufficio stampa del sindaco ed infine consulente di marketing all’interno di un’azienda, in procinto di lanciare un inedito ed innovativo prodotto che gli permetterebbe un definitivo scatto di carriera.
Ma un incontro casuale con tale Marcello (Marco Giallini), farà sì che la vita di David prenda tutt’altra direzione …
Leo e Marco Giallini
Decidi tu a chi credere recita il sottotitolo di Loro chi?, esortazione che rappresenta, almeno a mio avviso, l’essenza propria del film, al di là della sua movimentata struttura capace d’attraversare più generi cinematografici, dalla commedia di situazione a quella di costume volta alla denuncia sociale (le stoccate, in punta di fioretto, agli “incentivi alla truffa” offerti dal sistema), passando, fra gli altri, per il road movie e il thriller. Tale fluida mescolanza, rara all’interno del nostro cinema, appare particolarmente valida nel mettere in scena, coadiuvata efficacemente dalle ottime interpretazioni di Leo e Giallini, diverse realtà delle quali veniamo a conoscenza e al cui riguardo non è detto che tutte possano circoscriversi all’interno di una veritiera compiutezza, anzi.
L’impressione principale che mi ha lasciato la narrazione in sé è che il personaggio di David rappresenti un felice escamotage per visualizzare quell’arcobaleno perduto di vista dalla generazione di appartenenza o giù di lì, la cui visione è stata offuscata dalla mancanza di coraggio nel cogliere opportunità o sfruttare quanto già a disposizione, ancora prima che dalla necessità economica. Il tutto realisticamente reso da Leo nell’interpretazione di un individuo che saggia continuamente il confine fra sogni tangibili, infranti sul momento di avverarsi ed altri, eterei, corrispondenti a quanto avrebbe voluto prendesse forma nella sua vita.
Giallini
E qui entra in gioco il “malefico” ed ineffabile Marcello impersonato da Giallini prediligendo toni volutamente fumettistici. Un uomo dai mille volti e da una sola anima, costituita quest’ultima da quella geniale vitalità che gli permette di mettere in atto coreografiche truffe, le quali, nella loro ovvia illegalità, vanno a costituire un particolare filtro sulla routine giornaliera, offrendo alle vittime dei suoi raggiri quanto hanno sempre in fondo desiderato acquistare, storie in cui essere protagonisti, dalla subitanea notorietà che può concedere, ad esempio, il mezzo televisivo (la parte del film girata in quel di Trani, cittadina trasformata in un improbabile set per una fiction) al colpo grosso che ti permette di sferrare un gran calcio nel fondoschiena a quanti ti hanno sfruttato e deriso per anni (il piano perpetrato ai danni dell’impresa in cui lavorava David). Coppia particolarmente rodata, Leo e Giallini, l’uno speculare all’altro nel rappresentare i rispettivi personaggi, conferiscono una certa verve all’andamento narrativo, per quanto sulla distanza la messa in scena dell’arte della truffa mostri un certo affanno, in particolare nell’orchestrazione del citato grande colpo, dove regia e sceneggiatura appaiono entrambe improvvisamente “sedute”.
Leo
Viene infatti ripreso l’antico vizio di adagiarsi sbrigativamente su un eccessivo macchiettismo tanto dei due protagonisti, quanto dei personaggi secondari che fino a poco prima erano stati valorizzati in virtù di ottimi caratteristi, come il perfido presidente Ivano Marescotti o l’apparentemente bonario maresciallo Gallinari raffigurato da Maurizio Casagrande, debole con i forti e forte con i deboli.
Ecco sgonfiarsi i toni grotteschi e surreali sviluppati finora, rendendo il pur valido finale, dalla potenziale resa metacinematografica, vagamente annacquato e come svuotato di quella forza trainante e un po’ spiazzante che si era piacevolmente insinuata fra le pieghe della narrazione.
Comunque Bonifacci e Micicchè se la sono giocata alla grande nell’offrire con sincerità d’intenti il classico film “medio”, capace d’intrattenere, ed irretire, gli spettatori con buoni dialoghi e qualche battuta indovinata, fra divertimento e riflessione. La mano migliore che i due autori mettono sul tavolo è quella costituita dall’insinuazione progressiva di una curiosità intenta a svelare se quanto vediamo possa costituire o meno la rappresentazione della verità, nel senso cinematografico del termine, evidenziando, fra vari rimandi cinefili, quanto possano essere sfalsati i piani tra realtà e finzione, quando non addirittura sovrapponibili, nell’eterna recita della giornaliera sopravvivenza.
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