Magazine Cultura

Los Lobos all’Estival Jazz di Lugano, 9 luglio 2015

Creato il 11 luglio 2015 da Zambo
Los Lobos all’Estival Jazz di Lugano, 9 luglio 2015foto di Renato Cifarelli 
Lugano è una città fredda anche nell’afa estiva. La piazza dell’Estival Jazz è gremita di gente che beve birra ed aperitivi, o seduta ai tavolini dei ristoranti, ma oltre la piazza, al di fuori dei ragazzi sul lungo lago con un bicchiere in mano, la sera scende tranquilla e solitaria e probabilmente un po’ noiosa. Dopo aver dato una letta al menu esposto di qualche ristorante, che propone paillard (non proprio una prelibatezza) a 48 franchi svizzeri (praticamente euri), mi risolvo per una cena a base di mojtos e gelato.
Ma quando a mezzanotte i Los Lobos dell’est di Los Angeles salgono sul palco della bella Piazza della Riforma, la serata si impenna. In vita mia ho visto molti, molti concerti, ed ho ascoltato molte, molte band, ma nessuna come i Lobos.
Dopo un riscaldamento a base di musica latina, a memento della lunga gavetta come mariachi e gruppo da party, la band preme sull’acceleratore per dare gas ai motori. E sono motori da corsa a 12 cilindri, cromati da dragster, da street illegal, le auto muscolose con le fiamme dipinte sulle portiere che ululano per circuiti stradali fuorilegge.
Quando Louie Perez lascia la batteria al più giovane Enrique “Bugs” Gonzalez e David Hidalgo lascia la fisarmonica, diventano ben tre - con il redivivo Cesar Rosas - le chitarre schierate di fronte al pubblico. Con il pulsante basso Fender dell’instancabile Conrad Lonzano, ed il sassofono senza sosta del grande Steve Berlin, la potenza di fuoco è piena. Con l’esecuzione di The Neighborood il concerto decolla in verticale. Non musica per il corpo, non musica per la mente: musica per la spina dorsale, musica per il midollo, musica per il ballo di san vito, musica che ti strega, ti ammalia, ti fa danzare, ti fa dimenticare, ti fa volare. Musica del sacro pejote, che ti solleva in alto sopra il palco, a vibrare in simpatia ad ogni corda ed ad ogni nota del sax.
I Lobos sono musica panamericana: sono il rock’n’roll di Buddy Holly, sono il soul di Marvin Gaye, sono il rock delle chitarre dei Cream, sono il power flower dei Grateful Dead, sono l’anima nortena di Los Angeles.
La loro musica è colta e sofisticata. Come Gershwin, che fondeva la classica con la "musica tribale dei negri" (il jazz), i Lobos mischiano con sapienza, con mestiere, con magia, con grande abilità strumentale, gli ingredienti di tutta la musica che amiamo. Le musiche latino americane hanno arrangiamenti sofisticati, che i Lobos applicano ad ogni loro brano. Anche se i brani non sconfinano mai oltre le lunghezze canoniche, sono concentrati di lunghe cavalcate strumentali. Più che sui dischi, il melting pot delle melodie e degli arrangiamenti è totale e trasversale; anche nei pezzi latini la Fender solista di Hidalgo suona come Hendrix, e anche nei rock’n’roll echeggiano note nortene.
I Los Lobos sono bellissimi; niente affatto piacioni come va di moda oggi, hanno un aria sorniona ma minacciosa al tempo; sono dei duri che sogghignano e non si sdilinguano in presentazioni e ringraziamenti, ma alla fine della festa sorridono felici alla gioia del pubblico. I pezzi si susseguono a mitraglia senza soluzione di continuo e senza dare respiro; lo show non può durare più di un’ora e mezzo, e i Lobos la riempiono tutta di vibrazioni, di ritmo, di musica. Gli intermezzi acustici saranno per un’altra sera. Mi hanno riportato alla memoria lo show latino della band della Mink DeVille Band, quella con Freddy Koëlla, ma la ricetta è ancora più ricca.
Non mi sono segnato la scaletta, ero in trance, e quando cerco di ricordare mi sembra di aver ascoltato tutto. Di certo hanno fatto Kiko, Will The Wold Survive, Papa Was A Rolling Stone, Set Me Free, e una cover di Good Lovin’. Quando arriva La Bamba si capisce che lo spettacolo volge al termine. Il bis è una fulminante Don’t Worry Baby. Un’ora e mezza è troppo poca, lascia addosso tutta la voglia. Ciò nonostante non ho mai assistito ad uno show migliore di questo.
La più grande American Band in circolazione. Ed è un segno di questi tempi tristi schiavi del capitalismo che non ci sia una major discografica che voglia farsi fiore all’occhiello di un gruppo di tanto genio, la band che ha dato al mondo Kiko, Colossal Head e tanti altri lavori imperdibili. Una band per noi pochi superstiti.

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Magazines