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Lost in translation

Creato il 17 ottobre 2013 da Thefreak @TheFreak_ITA
Lost in translation

Lost in traslation è un film di Sofia Coppola uscito nelle sale cinematografiche nel 2003. Il sottotitolo dell’opera, Tutti vogliono essere trovati, recita una profonda verità: molte persone sperano che qualcuno le porti via dalla solitudine e dalla monotonia di una vita ormai priva di emozioni. È quello che capita anche ai due protagonisti di questa storia: Charlotte (Scarlett Johansson) e Bob (Bill Murray), i quali patiscono una profonda solitudine nella grande città di Tokyo. Lei, giovane laureata in filosofia neo-sposa di un fotografo che, a causa dei frequenti viaggi di lavoro, è spesso assente e cieco di fronte alla moglie. Lui, annoiato attore di mezza età, è in Giappone per realizzare una campagna pubblicitaria di un whisky e per sfuggire ad una monotona vita matrimoniale.

Charlotte è stanca del suo matrimonio, la vita si staglia di fronte a lei imponente e irraggiungibile come gli enormi grattacieli che vede ogni mattina dalla finestra della sua camera da letto. Non riesce a dormire, non prova più alcuna emozione che non sia la tristezza ed è circondata da quel senso di vuoto che ci avvolge quando ci troviamo a domandarci che siamo e, soprattutto, chi vogliamo essere. Bob è un attore che un tempo è stato famoso, ma che ora si ritrova malinconico sul viale del tramonto. È triste per come la sua vita ha preso una piega inaspettata: per soddisfare le esigenze dei figli e di una moglie assillante si accontenta di girare piccoli spot ricordando i tempi in cui era protagonista di film di valore e della sua vita.

Lost in translation

Charlotte e Bob si incontrano a causa della comune insonnia nel lussuoso albergo dove soggiornano e stringono un forte legame di amicizia e complicità. Le lunghe chiacchierate al bar dell’hotel e le uscite notturne in una Tokyo protagonista anch’essa del film, consentono ai due di scoprirsi straordinariamente simili, cosicché il loro rapporto si trasforma in qualcosa che va oltre l’amicizia e l’amore stesso.

Lost in translation è un film senza trama che scorre lento sullo sfondo di una fotografia malinconica e elegante, di suggestive inquadrature che hanno valso l’Oscar alla sceneggiatura alla Coppola. Il ricercato montaggio ci fa spesso sentire testimoni degli avvenimenti, mostrandoci lo stato d’animo dei protagonisti, che ci sembrano piccoli, fragili, quasi schiacciati dall’enormità di tutto ciò che li circonda (i palazzi, la folla, la città…). Moltissime scene sono in interni e\o in notturno, a sottolineare la dimensione intimista e di riflessione distaccata dal “vero”. Non a caso la ragazza guarda “il mondo che c’è fuori” osservandolo dall’alto di una finestra, un po’ come se fosse uno schermo televisivo con immagini indecifrabili.

Lost in translation è fondamentalmente un film sulla solitudine, ma non la solitudine di chi non ha nessuno con cui parlare, bensì la solitudine di chi non ha nessuno che lo ascolti. Due anime perse nel vuoto, due alieni nella caoticità iperattiva di Tokyo. Vite all’estremità dello stesso filo: quella di Bob è troppo avanti per tornare indietro, quella di Charlotte è troppo indietro per poter guardare avanti. Vite che si incontrano a metà strada per farsi compagnia, vite abbandonate nell’oceano di un’incomunicabilità non solo linguistica, ma che si rispecchia in una “confusione” più profonda, un caos dell’anima in cui confluiscono paure e disillusioni.

E così i rapporti problematici dei protagonisti coi rispettivi partner si riflettono nelle diversità culturali e ideologiche di una città come Tokyo, una città che viaggia veloce e che trascura le anime più innocenti e sensibili. Infatti sia Bob che Charlotte soffrono nello stesso modo: non mettono in discussione i compagni, continuano a salutarli pronunciando un “ti amo” svuotato di ogni significato, per pura consuetudine. Entrambi hanno trascorso la vita cercando di sopravvivere, e non si sono accorti che la felicità li ha sfiorati, è passata loro accanto senza che essi riuscissero ad afferrarla.

Un eccezionale Bill Murray, vincitore del Golden Globe come miglior attore, offre un volto sofferentemente impassibile all’insonnia, due incredibili occhi che, nei confronti della “particolare” ospitalità giapponese e delle snervanti richieste telefoniche della moglie, si mostrano stanchi e spenti. La Johannson è anche lei bravissima in un ruolo maggiormente riflessivo rispetto a quelli sensuali e provocanti in cui siamo abituati a vederla.

Lost in translation

Le parole tra i due sono poche e spesso inutili, sono piuttosto i silenzi gli sguardi e i corpi degli attori che ci raccontano i pensieri, che ci fanno sentire più che vedere o raccontare le emozioni, i turbamenti dei protagonisti. D’altra parte anche la regista, Sofia Coppola, si è rivelata straordinariamente capace nel modellare un film in cui si delineano i contorni di una storia che potrebbe accadere, uno stato embrionale di qualcosa che potrebbe iniziare per i due protagonisti che, ancorati alle loro tristi vite, devono comunque accettare che il destino si compia.

Forse il messaggio di questo film va scovato proprio nel titolo: Lost in translation, letteralmente “Persi nella traduzione”. Qui però per traduzione non s’intende la frase che esce dalla nostra bocca come immagine riflessa di un’altra frase, né la parola scritta a fianco di una parola in un’altra lingua. In questi film “traduzione” significa avvicinare due mondi e rendersi conto che non potranno mai specchiarsi l’uno nell’altro perché sono diversi. Eppure io posso capire quei due mondi, ho il privilegio di intuire che la differenza tra loro è molto simile a quella che c’è tra due persone, perché sono uomo e donna, giovane e vecchio… La traduzione è il confronto con l’altro, un altro che è sempre diverso da te, e capirlo e riuscire a farsi capire. È questa secondo me la grandezza della Coppola: ha saputo avvicinare due generazioni con tatto e capacità introspettiva, evidenziandone nelle differenze le crescenti affinità.

Lost in translation

di Ilaria Pocaforza

Tag:amore, Bill Murray, cinema, città, destino, lost in traslation, recensione, Scarlett Johansson, sofia coppola, solitudine, the freak cinema, tokio


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