Scarlett dentro, la città cattiva fuori
Avevo scritto una recensione del tutto diversa per questo film, ma intanto che la buttavo giù, ripensavo alle immagini e ai gesti, il mio sentire a poco a poco è cambiato e ho dovuto ricominciare da capo. Mentre la yamatologa che è in me scalciava imbizzarrita, la cinefila (parte altrettanto importante e indissolubilmente legata alla prima) razionalizzava e a poco a poco capiva le intenzioni della regista e mi costringeva a darle atto di un paio di cose. Ma partiamo dall'inizio.Lo dico subito, così ci togliamo il dente: Sofia Coppola, secondo me, è un po' sopravvalutata. Le sue storie di belli, ricchi e tristi, per quanto elegantemente confezionate e impacchettate con cura, non mi hanno mai emozionata. Sofia è la quintessenza del radical chic, una figlia d'arte che ha i mezzi per fare dei bei film, ma non ha abbastanza cuore, o intuizione, per mirare a film davvero grandi (al contrario dell'ex marito Spike Jonze, fine della digressione). Ho riguardato Lost in translation dopo tanti anni, ma c’è qualcosa che mi ha reso la visione quasi fastidiosa.
Ciò che davvero è lost in translation, intraducibile, sono le emozioni che i personaggi non sanno esprimere nemmeno a se stessi, le insoddisfazioni per rapporti svuotati di sentimenti a cui non sanno rinunciare, per paura o abitudine. Sarebbe potuto accadere ovunque, ma è più facile a tanti chilometri da casa, in mezzo a persone che parlano una lingua apparentemente senza senso, soli in una città smisurata in cui ci si sente piccolissimi e persi. Il tempo si dilata, pochi giorni valgono come settimane e mesi, l’intimità diventa semplice.
Parole santissime
La Coppola gioca l'asso, piazza i protagonisti a Tokyo, metropoli conosciuta da tutti ma esotica e inaccessibile ai più, e la scelta è in parte una posa, in parte un modo per sfoggiare le proprie abilità registiche, e in parte un'azzeccata quanto semplificante scelta narrativa per mostrare due persone isolate dal mondo che li circonda, impossibilitate a comunicare e destinate a trovare nell'altro l'unico interlocutore a cui rivolgersi.Quello che mi ha fatta sbuffare per tutta la visione è la rappresentazione piena di stereotipi del Sol Levante e dei suoi abitanti, sberleffo continuo impregnato di un senso di superiorità immotivato e di un'accondiscendenza tutta americana da cui traspare l'incapacità totale di relazionarsi a una cultura diversa. La Coppola fa centro nella caratterizzazione degli stranieri – ignoranti – in Giappone, accatastando luoghi comuni uno sull’altro, e raffigurando Tokyo come una città aliena abitata da forme di vita bizzarre.
Il suo sguardo coglie alla perfezione la splendida luce e i colori cangianti di Shibuya e Shinjuku, lo stupore negli occhi dei protagonisti, ma non va in profondità e galleggia senza immergersi nemmeno per un istante nella vera natura di una delle più sorprendenti capitali del mondo.
Il momento più toccante e vivo della pellicola, reso in modo dolorosamente credibile e capace di riaprire in me ferite ancora fresche, è quello del distacco finale – due corpi immobili in mezzo al brulicare della metropoli, un ultimo sguardo posato su qualcuno che forse non rivedremo più, un bacio che sa di sconfitta e parole sussurrate col groppo in gola, che domani non significheranno più nulla. Gli addii, al solo pensarci, mi devastano.
E per dare il colpo di grazia Sofia, che con la musica ci sa fare, ci piazza a tradimento Just like honey dei The Jesus and Mary Chain, che sembra fatta apposta per abbracciare i grattacieli che si svegliano, e quasi quasi facciamo pace, io e questo film.