Lou Reed non c'entra
Creato il 29 ottobre 2013 da Marina Viola
@marinaviola
Lou Reed non c’entra. Cioé, in parte c’entra anche lui. Parlo della malinconia che mi ha assalito ieri, quando ho saputo che era morto. Il fatto è, credo, che legate al suo nome ci sono tante robe, tanti luoghi, tanti momenti importanti, tante riflessioni, tanta voglia di tornare indietro.La prima immagine che mi è venuta in mente quando ho saputo della morte di Lou Reed è stata la stanza sporca, disordinata e leggermente puzzolente di Dan. Sono passati almeno venticinque anni dalle serate che passavamo lì dentro a sbaciucchiarci e a ascoltare musica. Io, mi ricordo, gli avevo fatto ascoltare Pino Daniele, che gli piacque molto. Poi lui mi disse, ’Ascolta questa’, e mise nel lettore cd il disco Loaded dei Velvet Underground. Dalla copertina, la conoscete tutti immagino, non si capisce per niente che tipo di musica proponga questo gruppo con il nome tanto strano, che evoca un po’ gli Weather Underground, e quindi il periodo rivoluzionario americano più recente, ma che associato a Velvet, diventa un po’ effemminato, trasgressivo e sexy. La prima canzone del disco è ‘Who Loves the Sun’. Io l’ascoltai e mi si aprì un mondo; nel mio cervello si aprì una porta che non sapevo esistesse, e dietro la porta c’era la voce di Lou Reed, le parole semplici eppure struggenti. Non feci in tempo a riprendermi che iniziò ‘Sweet Jane’. Ne uscii esausta, cambiata. Ecco, ieri mi è venuta in mente questa immagine, e ho provato quelle stesse sensazioni antiche, vissute quel giorno. E poi ho pensato, musica a parte, a come fossimo giovani io e Dan quando ascoltavamo quel disco e ci sbaciucchiavamo sul suo letto con le lenzuola puzzolenti, e a quante cose ci siano successe da allora: lui che ha vissuto a Milano per un anno, io che poi sono venuta a vivere negli Stati Uniti, le nostre università varie, i nostri traslochi, i nostri appartamenti, e poi la mia prima gravidanza, quando passavamo le serate a immaginare un figlio completamente diverso da quello che poi è nato. Parlare di Lou Reed vuole anche dire parlare di Brooklyn, NY, dove lui era nato. Brooklyn rappresenta una parte essenziale della mia vita, perché è dove ho trovato la spinta di tornare a studiare e laurearmi, è dove è nata mia figlia Emma, è dove ho incontrato persone eccezionali, tipo Liz e Martina e Jacqueline, e dove ho respirato l’aria putrida dell’undici settembre e la pazzia del nostro vicino di casa, che ci ha obbligati a scappare dalla nostra casa e dalla città di cui ci sentivamo parte integrante. Brooklyn è un contenitore, in cui chi vuole può trovarci di tutto: c’è ricchezza sfrenata e povertà indescrivibile, ci sono persone di tutto il mondo, di tutte le religioni; ci sono le zone appariscenti e le zone da terzo mondo. C’è caos e silenzio. C’è un cuore che pulsa a mille all’ora e che produce musica, arte, teatro, letteratura. Vivere a Brooklyn è un po’ come vivere in un vortice. Brooklyn mi manca tanto quanto Milano, a volte.E infine Lou Reed mi fa pensare alla Factory, a Andy Warhol e a quel periodo saturo di creatività, di voglia di sperimentare cose nuove, di spaccare barriere. Un mondo che ha, in parte, un’energia simile a quello in cui mio padre lavorò e inventò con i suoi compagni di avvventure un linguaggio dissacrante e un'attenzione alle persone normali. La Pop Art è stato un po’ quello: una sberla all’arte dell’elite, un’arte popolare, da mettere sulle lattine della minestra, un’arte che mostra una ripetizione della stessa immagine e che mimica una produzione di massa di immagini. Un’arte che prende un’icona come Marilyn Monroe, o un personaggio duro come Mao Tse-tung e li deride, senza offendere. Un’arte che sceglie una banana e una band di poco successo, li mette insieme e inventa i Velvet Underground, che diventano leggenda.Adesso chi osa proporre cose del genere? Chi ha voglia di mettere in discussione il nostro mondo? Chi è curioso di scoprire cosa c’è dall’altra parte e spinge per rompere le barriere che ci circondano? Oddio, lo so: sembro una vecchietta, sono la tipica persona di una certa età che glorifica il suo periodo e demonizza la generazione attuale. Dai, mi fermo qui che è meglio.
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