- Anno: 2015
- Durata: 92'
- Distribuzione: Lucky Red
- Genere: Documentario
- Nazionalita: Italia, Francia
- Regia: Roberto Minervini
- Data di uscita: 28-May-2015
Dopo esser stato presentato Al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, arriva nelle sale italiane dal 28 Maggio Louisiana (The Other Side) di Roberto Minervini.
Sinossi: In un territorio invisibile, ai margini della società, sul confine tra illegalità e anarchia, vive una comunità dolente che tenta di reagire a una minaccia: essere dimenticati dalle istituzioni e vedere calpestati i propri diritti di cittadini. Veterani in disarmo, adolescenti taciturni, drogati che cercano nell’amore la via d’uscita dalla dipendenza, ex combattenti delle forze speciali ancora in guerra con il mondo, giovani donne e future mamme allo sbando, vecchi che non hanno perso la voglia di vivere. In questa umanità nascosta si aprono gli abissi dell’America di oggi.
Recensione: Vedendo l’ultimo documentario di Roberto Minervini viene subito in mente quel sottoproletario/lottatore interpretato da Mickey Rourke in The Wrestler di Darren Aronofsky, un reietto, diseredato, costretto ai margini della società, confinato in una roulotte. Le vite che il regista marchigiano impressiona in sequenza con l’occhio della macchina da presa si presentano senza veli, spudoratamente, e ci si chiede – ed è questo il punto decisivo – quanto il linguaggio del cinema del reale venga, superata una certa soglia, sussunto nel cinema di finzione. Mark e Lisa, i protagonisti per la maggior parte del film, sono due tossicodipendenti legati da una storia d’amore che li tiene a galla nelle acque torbide in cui da tempo sono precipitati; Mark ha dei precedenti penali, ha scontato già di due anni e mezzo in carcere, ma, vista la sua dipendenza dalla droga, auspica di essere di nuovo arrestato, per tentare almeno di salvarsi la vita. Di Lisa sappiamo ancora meno, è una donna sul cui aspetto sono impressi gli effetti dell’uso di stupefacenti, ma ciò non distoglie Mark dal suo amore per lei. Li vediamo accoppiarsi carnalmente, drogarsi, immergersi in pieno inverno nelle gelide acque di un fiume, tutti i loro incontri sono drammatici, come se la fine stesse sempre incombendo. Ma quanto l’occhio della cinepresa di Minervini può aver influenzato il loro comportamento, privandolo della naturalezza che lo stile documentaristico richiederebbe? Minervini afferma che il suo è un approccio che sta a metà tra fiction e documentario, ma, al tempo stesso, sottolinea quanto tutto il suo lavoro preparatorio sia finalizzato a raggiungere il maggior grado di spontaneità delle persone che dovranno essere riprese. C’è in queste dichiarazioni qualcosa di contraddittorio, che forse necessiterebbe un chiarimento personale da parte dell’autore. Spingersi fino a documentare un rapporto sessuale con relativo coito porta, forse, alle estreme conseguenze il concetto di linguaggio del reale, laddove una situazione intima per eccellenza richiederebbe il livello massimo di privatezza. Più credibile, invece, appare l’ultima mezz’ora del film dove il regista si sofferma su un gruppo paramilitare sorto spontaneamente e costituito da pregiudicati, ma anche da semplici cittadini che ritengono opportuno ricorrere all’utilizzo delle armi per difendere se stessi e la propria famiglia. Il gruppo in questione è totalmente depoliticizzato e sorretto unicamente dall’esigenza di garantirsi la sopravvivenza; vediamo i membri mentre si preparano militarmente, con delle esercitazioni che somigliano in tutto e per tutto a quelle che si svolgono negli eserciti regolari. Per la maggior parte sono soggetti giovanissimi che cercano sicurezza in un gruppo che prova a darsi un ordine, a trovare in se stesso un certo grado di autosufficienza, visto che le istituzioni sembrano latitare del tutto.
Ora ci si chiede cosa il regista abbia voluto davvero rappresentare scegliendo di filmare un tipo specifico di umanità. Non sono dei sottoproletari – avrebbe ancora senso oggi parlare di sotto proletariato? -, sono degli sconfitti, gli ultimi, i dimenticati e, forse, possono fare paradigma nell’individuazione di tutte quelle soggettività che la logica capitalistica ha annientato, relegandole ai margini. In questo senso non si può che apprezzare l’opera di Minervini che ci pungula e ci esorta a non dimenticare coloro che sono estromessi dal sistema produttivo, e che le attuali crisi economiche sembrano aver aumentato nella quantità. Il problema è che non si riesce mai davvero a empatizzare, perché non possiedono una propria cultura, o contro cultura, che fornirebbe loro un certo grado di dignità, ma sono dei sottoprodotti della struttura capitalistica che li ha generati. Insomma, sono il residuo irredimibile di quel genocidio culturale di cui parlava Pier Paolo Pasolini nel 1975 in Lettere Luterane. Non hanno un proprio linguaggio, non hai quei tratti ‘criminaloidi’ che un tempo caratterizzavano intere fasce delle popolazioni a maggioranza piccolo borghese. Non sono né ubbidienti né disubbidienti. Eppure meritano anch’essi di essere salvati. Ecco forse è proprio questo il punto: capire come, oggi, poterli salvare. Ma probabilmente bisognerebbe risalire al meccanismo che li ha generati, e cercare di boicottare o quanto meno ‘disturbare’ le condizioni che ne sono la causa. Che fare? si chiedeva Slavoj Žižek in In difesa delle causa perse, però non individuava, a conti fatti, delle vere azioni da poter innescare per interrompere o quanto meno rallentare il processo di generazione delle diseguaglianze. Questa, forse, è la sfida che ci attende, saper trovare delle risposte concrete che ostacolino i processi di produzione delle soggettività marginali.
Rimane ferma la bontà dell’opera di Minervini, seppur con alcune riserve sulla genuinità del linguaggio usato.
Luca Biscontini