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Luca Benassi su Stefano Vitale

Da Narcyso

Stefano VITALE, il retro delle cose, puntoacapo editrice, Novi Ligure 2012.

 

NZO
Stefano Vitale è poeta capace di usare il linguaggio come strumento di scavo nella roccia della vita per tirarne fuori l’essenza, come un prisma attraverso il quale scomporre ed osservare la realtà che lo circonda, per ricomporla nella scansione dei versi. Il titolo del suo ultimo libro, “Il retro delle cose”, potrebbe trarre in inganno: a Vitale, infatti, non interessa una poetica degli oggetti, del loro asfittico relazionarsi con l’essere umano fra le mura condominiali verso derive urbane e minimaliste; le ‘cose’ di Vitale vanno invece intese nel senso più ampio di una res extensa che comprenda il grande teatro della natura e delle vicende umane che in esso si esplicano, facendosi Storia. Tale realtà, tuttavia, estesa nel tempo e nello spazio di fronte all’occhio del poeta, non è limitata e inconsapevole, come un materiale inerte da saggiare e sezionare, bensì si offre (e si determina) attraverso l’interazione con l’individuo, ne è parte attiva attraverso una meccanica dello spirito fatta di continui rimandi, giochi di specchi con il linguaggio che cerca di definirne i contorni: “il retro delle cose/ sono corde e fili tirati/ sciabole di luce e catene e ganci/ possenti tiranti d’ombre tese/ che mute lavorano nelle gabbie/ di fari allineati occhi sgranati/d’uccelli notturni immobili e inquieti/ oltre il respiro della tenda rossa/ che si apre e si chiude nel gioco di specchi/ oltre le grigie pareti di nastri d’acciaio/ insospettabili strumenti di tortura/ governati da nascoste mani sapienti.” Questo testo, che apre la raccolta dandone il titolo, ci mostra da subito il punto di vista del poeta nei confronti della realtà, la quale mostra improvvisi squarci (“il retro delle cose/ è una porta chiusa sulle ferite dell’apparenza”), senza mai offrire una verità definita e consapevole, liscia, chiusa dai bordi della certezza dell’essere, e che invece si determina attraverso il suo strumento di indagine e nominazione che è il linguaggio (e la poesia). In altre parole, il nocciolo della poetica di Vitale è da trovarsi in questo corpo a corpo, feroce e incandescente, fra le cose e la lingua che le nomina. È in questo senso che deve essere inteso il retro delle cose, questo continuo smascheramento dell’apparenza, che si manifesta come forma di libertà della poesia, capace di rompere schemi e costrizioni, per essere all’interno di una materialità che si mostra attraverso mutevoli sfaccettature. Non è un caso che questi versi proliferino con naturalezza sulla pagina, alternando sapientemente versi lunghi e brevi, isolando sintagmi, parole, alla ricerca di una musicalità sorgiva fatta di continue allitterazioni, assonanze, rime interne: “trame intricate intrise di tremanti fremiti/ labirintico laborioso/ lacrimare di linee/ alcune liberamente percorse/ persino tracciate/ altre trovate o ripristinate”. È questa una poesia che non vuole punti fermi, rifiutando una datità delle cose, intesa appunto, come facciata oltre la quale (o meglio dietro la quale) è sempre possibile affinare la ricerca della verità. Ed in effetti, la realtà per Stefano Vitale si determina attraverso la parola, mediante la relazione di questa con le cose, aderendo ad un principio (letterario) di indeterminazione che ricorda Heisenberg e la meccanica quantistica (fra l’altro richiamata da Piero Bini in una delle note critiche che corredano il volume, insieme alla prefazione di Gabriella Sica). In proposito si osserva come in Vitale vi sia un continuo passaggio da una realtà particolare, minima (ma non minimalista), fatta di dettagli, trine e minuzie del quotidiano, ad una dimensione stellare, tesa al mistero dell’abisso dell’infinito, apparentemente lontano dai fastidi e dalle inquietudini che angosciano l’essere umano, ma nel quale si misura il passo del destino e della natura dell’individuo: “non scendono in basso,/ illuso, le stelle/ lontane restano e stanno al fianco dei pianeti/ apparire e scomparire al ritmo delle stagioni/ al passare delle nuvole/ al battere delle lune e dei temporali/ accompagnano indifferenti le orbite/ con occhi di pietra e luce scricchiolante”. In questo richiamo alle stelle, nella cui indifferenza nei confronti delle orbite planetarie si coglie un richiamo alla ‘divina indifferenza’ di montaliana memoria (Montale è una presenza costante nel libro), è ravvisabile il senso della distanze e del distacco capace di mostrare l’apparenza delle cose, poiché ciò che vediamo nello spazio (come nella realtà di ogni giorno, sembra dirci il poeta) non è altro che la luce di astri che potrebbero essere già da lungo tempo spenti; ed allora le stelle “[…] sono già morte/ persino già sepolte in una tavola nera/ simulacri del tempo/ tentativo d’immortalità/ inganno dell’attesa e della nostra distanza/ fingono il pensiero/ disponendosi alla vista sul palco dell’apparenza”. In questa distanza (siderale), che è poi il distacco del poeta dalla realtà per riuscirne a osservare il retro, si misura la capacità di vedere oltre, di osservare le cose al di là dell’apparenza di facciata, per coglierne l’elemento paradossale, la trama di connessioni e rimandi che sfugge e si situa all’interno della verità, nella cecità del determinato. Ciò vale anche per le relazioni, gli incontri, le emozioni, Vitale infatti conduce la sua indagine poetica sulle passioni dei rapporti, mettendo l’essere umano all’interno (ma non necessariamente al centro) del teatro delle cose. Le due sezioni centrali del libro “Nato per caso” e “Il teatro della memoria” ci rimandano ad una condizione dell’essere umano nella quale gli accadimenti sembrano sfuggire alla determinazione ed al controllo, per andare a comporre un disegno, non necessariamente soteriologico e religioso (anche se non mancano i connotati di una, a tratti intensa, spiritualità), i cui contorni si possono cogliere solo dal di fuori, con il distacco del mistico o del poeta. Ne emerge una dimensione di sogno, sbiadita nelle nebbie della memoria, nella quale luoghi, cose e passioni perdono la loro essenzialità e il loro peso; si coglie in questi versi una grana filosofica, una leggerezza nella quale sfumano i concetti assoluti di Bene e Male, verso una compenetrazione necessaria ed inevitabile che ricorda sommariamente il pensiero orientale. Tutto, allora, sembra acquisire una senso maggiore, nel quale la ricerca estenuante della felicità diventa la tensione assoluta all’equilibro, nella speranza di essere compiutamente se stessi: “difficile è la gioia che viene da dentro/ pura trasparenza dell’impulso/ del corpo e del vivere tutto intero/ senza armature ne travestimenti/ troppa perfezione ci è negata ed invochiamo/ allora un dono/ mendichiamo affetto/ desideriamo almeno un premio/ che troppa è la paura di saltare il fosso/ della ricompensa per giustificare il nostro sforzo.” Anche l’amore è un accadere (“non scegliamo l’amore/ è l’amore che ci prende per i capelli”), una tempesta che ci scuote dal vivere torbido e senza affetti, sempre attenti al solo mostrare una facciata dietro la quale si nasconde il nulla; questa poesia invece vuole colpire nel profondo, cercare la sorgente che si nasconde dentro l’esistenza apparentemente statica e acquitrinosa, grazie alla capacità di guardare la realtà con “occhio sghembo”. Stefano Vitale è un poeta coraggioso, che si dibatte, squassa, entra dentro le cose per dirci l’indicibile e regalarci una poesia da seguire con attenzione.

 (Luca Benassi)


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