Con La grande magia di Eduardo De Filippo s’è alzato il sipario sulla stagione 2013-2014 del Teatro Ermete Novelli di Rimini. Un cartellone, ancora una volta suddiviso per generi, che propone al pubblico dei turni A-B-C grande prosa ed autorevoli interpreti: da Massimo Ranieri ad Angela Finocchiaro, da Alessandro Gassman a Luca Zingaretti, da Giulio Scarpati a Maria Amelia Monti. Apertura, come detto, dedicata alla commedia di Eduardo, portata in scena da La Compagnia di Teatro fondata dal figlio Luca nel 1981; ad un testo, tra i meno conosciuti del drammaturgo napoletano, scritto nel 1948 e rappresentato in pochissime occasioni: nel 1949 dall’autore, nel 1985 da Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano, con in mezzo una trasposizione televisiva del 1964 diretta dallo stesso Eduardo. Un’opera che non riscosse, all’esordio, il successo sperato, e le cui repliche furono interrotte per la malattia che colpì la sorella Titina, protagonista femminile designata; imprevisto che costrinse il regista a “virare” verso un testo, Le voci di dentro, confezionato in appena sette giorni, e che attirò, è facile immaginarlo, sulla sfortunata ed incompresa commedia la scaramantica antipatia dello stesso ideatore. Fino al meritato consenso, arrivato negli anni ’80 con la rappresentazione strehleriana della commedia ed in tempi recenti con la tournée di Luca De Filippo, partita da Perugia nell’ottobre 2012 ed ancora in giro per l’Italia. Un testo, ricco e complicato, che ha indotto la critica teatrale a parlare di un Eduardo pirandelliano, per i lati oscuri e le diverse sfaccettature del copione, nonché per le tante, possibili, letture interpretative.
Come, di certo, pirandelliana è la vicenda descritta: il professore dell’occulto, il mago Otto Marvuglia, nel corso di uno spettacolo di magia fa sparire Marta, moglie del geloso Calogero Di Spelta, per consentirle di fuggire con l’amante, e per poi far credere al marito che potrà ritrovare la consorte solo se aprirà, con totale fiducia nella fedeltà della donna, la scatola in cui sostiene sia rinchiusa. Una finzione, portata avanti dal falso mago per ben quattro anni, che spinge inesorabilmente il marito tradito nella pazzia, facendogli perdere ogni distinzione tra fantasia e realtà. Con un finale che regala il ritorno della moglie pentita e la delirante reazione di Calogero, che si rifiuta di riconoscerla, preferendo credere che la vera Marta sia rinchiusa nell’inseparabile scatola, custodita con amorevole cura. Una trama in cui – è lo stesso Luca De Filippo a spiegarlo nelle note che accompagnano il testo – la disperata illusione di una moglie fedele è metafora di un mondo, cieco e sordo, che preferisce non guardare in faccia la realtà; un’umanità, di sicuro provata dai duri anni del dopoguerra, in cui è bene, dopo tanto dolore, sognare e coltivare speranze anche folli. Un quadro in cui anche il teatro assurge ad una funzione terapeutica, un’arte accessoria che non può creare allerta, ma solo un tranquillizzante gioco di illusione.
Un’opera, ambigua e paradossale, la cui scenografia teatrale, con particolar riferimento al secondo e terzo atto, ha ricordato fortemente l’ambientazione domestica ed i colori cupi delle più celebri Filumena Marturano e Sabato, domenica e lunedì; una commedia velata dalla consueta ironia, ma connotata da un pessimismo ed una drammaticità mai riscontrate nella produzione di Eduardo, chiaro segnale della crisi che lo pervase negli anni del secondo conflitto mondiale. Da annotare la superlativa prova del “mago” De Filippo, nei panni dell’esilarante imbonitore col turbante in testa, attualissimo e truffaldino paroliere, dotato di enorme forza persuasiva; una trasposizione teatrale in cui si muovono, da protagonisti, il bravo Massimo De Matteo nei panni del Calogero tradito, e la vulcanica Carolina Rosi, ad interpretare Zaira, moglie-assistente del mago. Una grande magia, che non fu l’unica incursione del drammaturgo napoletano nel campo dell’occulto, già trattato in Sik-Sik, l’artefice magico, ed i cui ragionamenti è lo stesso Eduardo, nel 1950, a spiegare: «La vita è un gioco, e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dall’illusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede [...]. Ogni destino è legato ad altri destini in un grande gioco eterno del quale non ci è dato scorgere se non particolari irrilevanti».
Le fotografie inserite in questo articolo sono di Tommaso Le Pera