L’entanglement fra particelle e i cosiddetti ‘wormholes’, gli ipotetici tunnel spazio-temporali che unirebbero zone remote dell’universo, potrebbero essere diverse manifestazioni di un’identica realtà fisica. L’ipotesi su Physical Review Letters.
di Marco Malaspina 04/12/2013 19:16Due buchi neri collegati da un wormhole. Crediti: Alan Stonebraker / American Physical Society
Cos’hanno in comune un fenomeno come l’entanglement quantistico, con i suoi bizzarri legami fra particelle gemelle, ed entità come i wormholes, le ipotetiche scorciatoie fra coppie di buchi neri ottenute scavando profondi cunicoli nelle viscere dello spazio-tempo? È tutta roba esotica, incomprensibile e contro-intuitiva, d’accordo. Almeno per la maggior parte di noi mortali.
Possiamo fare di meglio? Be’, anzitutto non è difficile notare che in entrambi i casi si tratta di collegamenti: fra infinitesimali particelle nel caso dell’entanglement e fra smisurati buchi neri in quello dei cunicoli spazio-temporali (chiamati, non a caso, “ponti di Einstein-Rosen”), ma pur sempre collegamenti.
Riciclando poi qualche nozione dai fumetti e dal cinema di fantascienza, possiamo azzardare un passo ulteriore: in entrambi i casi si tratta di collegamenti lungo i quali non vige alcun limite di velocità, in quanto teoricamente in grado d’aggirare quell’antipatico vincolo dei 300 mila km/s che sempre ci riporta alla realtà ogni qual volta proviamo a sognare di trasferirci su un altro mondo.
Per avventurarsi in sicurezza al livello superiore, però, similitudini e metafore stradali non bastano più. Occorre armarsi di solidi strumenti matematici. Come hanno fatto Kristan Jensen (University of Victoria, Canada), Andreas Karch (University of Washington, USA) e Julian Sonner (MIT) – i primi due in coppia, il terzo in solitaria – con due studi pubblicati entrambi il 20 novembre scorso su Physical Review Letters. Due studi talmente teorici da far venire le vertigini solo a leggerne i titoli (“Holographic Dual of an Einstein-Podolsky-Rosen Pair has a Wormhole” è quello firmato da Jensen e Karch, “Holographic Schwinger Effect and the Geometry of Entanglement” quello di Sonner), ma resi comprensibili a tutti da un ottimo articolo uscito lunedì scorso sul sito web di Science a firma di Katia Moskvitch.
Ricorrendo al cosiddetto “principio olografico”, in base al quale un mondo a n dimensioni può essere rappresentato dal mondo a n-1 dimensioni che ne segna i confini, i tre fisici teorici sono giunti a stabilire una sorta di corrispondenza fra wormholes ed entanglement. Semplificando brutalmente, il fenomeno dell’entanglement quantistico sarebbe una rappresentazione nell’universo a 3D (senza dunque considerare la gravità) di quello che sono i wormholes in un universo a 4D (con la gravità). Insomma, il cunicolo spazio-temporale che unisce una coppia di buchi neri situati agli estremi opposti dell’universo e l’ineffabile stringa che vincola in modo indissolubile le proprietà esibite da una coppia di particelle elementari non sarebbero altro che due facce della stessa medaglia. Una visione, val la pena osservare, che entrerebbe a gamba tesa nell’annosa querelle fra meccanica quantistica e relatività generale.
A rovinare i sogni di chi già s’immagina in viaggio nell’iperspazio verso i mondi di galassie remote, però, oltre alla difficoltà del tradurre in comodi veicoli da turismo spaziale modelli matematici che più eterei non si potrebbe, ci sono due considerazioni che minano il progetto alla base. Partiamo dall’entaglement quantistico: per quanto sia istantaneo, indipendentemente dalla distanza che separa la coppia di particelle, non può essere utilizzato nemmeno per inviare un’informazione elementare come lo stato di spin di una delle due. Questo perché, per definizione, lo si scopre solo nel momento in cui lo si osserva, senza che lo si possa imporre. Insomma, il fenomeno è al di là del nostro controllo.
Ma ha un sapore di beffa anche l’ostacolo nel quale ci si andrebbe a imbattere volendo prendere un wormhole come scorciatoia per saltare in men che non si dica da un luogo all’altro dell’iperspazio: il problema, in questo caso, è che mentre è sin troppo facile addentrarsi nel cunicolo dal buco nero d’ingresso, quando si giunge a metà strada, dunque quando dovrebbe cominciare la salita a riveder le stelle, per quanto ci s’impegni l’impresa risulta impossibile. E qui l’allenamento non c’entra: di nuovo, da un buco nero non si esce per definizione.
D’altronde, proprio questa doppia impossibilità per definizione d’impiegare entanglement e wormholes come stratagemmi per aggirare il limite della velocità della luce costituisce un ulteriore punto in comune fra i due fenomeni.
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina